Dieci anni fa l’incidente nucleare di Fukushima diede il colpo di grazia ad una tecnologia che era già stata messa in ginocchio dal disastro di Chernobyl nel 1986. Da allora i pochi ordinativi di nuove centrali nel mondo non sono riusciti a stare dietro alle crescenti chiusure dei vecchi impianti. Neanche l’allungamento della vita delle centrali attive è riuscita a cambiare le sorti della produzione di energia dalla fissione.

Il nucleare è morto, con buona pace dei fautori del risorgimento nucleare in piena crisi climatica. Ora però bisogna trovare un’adeguata sistemazione alle scorie prodotte da questa pericolosa tecnologia, ancora oggi un problema irrisolto in tutto il pianeta. In Italia il decimo anniversario del disastro giapponese cade nel pieno del dibattito sulla realizzazione del deposito nazionale dei rifiuti radioattivi.

Si tratta di una telenovela che dura da decenni. Dopo aver chiuso le centrali nucleari grazie al referendum che vincemmo nel 1987 e sventato il loro ritorno con la seconda vittoria ottenuta col voto popolare nel 2011, il problema dello smaltimento in sicurezza dei rifiuti radioattivi è rimasto drammaticamente senza soluzione. I motivi sono sostanzialmente due: la sindrome Nimto (non nel mio mandato) dei governi che si sono succeduti negli ultimi venti anni (con l’unica eccezione del Conte 2, spinto anche dalla procedura d’infrazione europea) e la gestione fallimentare da parte della società pubblica Sogin, creata dallo Stato 22 anni fa per smantellare le centrali spente e gestire i rifiuti radioattivi.

Nel frattempo il paese ha stoccato i rifiuti in depositi insicuri, pericolosi e spesso a rischio idrogeologico. Basti pensare ai depositi di Saluggia in Piemonte in zona a rischio di esondazione della Dora Baltea, alla centrale di Sessa Aurunca sulle sponde del fiume Garigliano, al capannone arrugginito della Cemerad di Statte, a una manciata di chilometri dall’ex Ilva di Taranto, o agli stoccaggi temporanei degli ospedali, dell’industria e dei centri di ricerca, che continuano a utilizzare sorgenti radioattive per le loro attività. I rifiuti radioattivi vengono ancora trafficati illegalmente. Non c’è più l’uso ricorrente delle navi affondate nel Mediterraneo come denunciavamo alla metà degli anni ’90, ma gli smaltimenti illeciti continuano, come dimostrano le indagini del Comando Carabinieri Tutela Ambiente e i dati del ministero della Giustizia sull’applicazione della legge sugli ecoreati negli anni 2015-2019.

È fondamentale avviare il sistema informatico di tracciabilità dei rifiuti radioattivi previsto dal decreto legislativo 101/2020. Ma serve anche realizzare il deposito nazionale con un lavoro trasparente di scrematura dei 67 siti inseriti nella Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee. Per realizzarlo servono due azioni fondamentali. La prima è la definizione di un accordo europeo per ospitare le scorie italiane ad alta attività in uno dei depositi internazionali previsti dalla direttiva per i paesi come il nostro che ne hanno piccole quantità. La seconda è l’avvio di un vero dibattito pubblico per condividere con i territori l’individuazione del sito meno problematico.

Basta una modifica del codice degli appalti per prevedere questo strumento anche per il deposito. Servirà anche per tutte le opere sottoposte a Via che realizzeremo con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Lo smaltimento definitivo dell’eredità radioattiva e la transizione ecologica del Paese passano anche attraverso una nuova stagione della partecipazione. È questo il momento giusto per avviarla.

L’autore è presidente nazionale di Legambiente