Quando, a poche ore dalla strage compiuta nella moschea della città di Québec, il primo ministro della provincia francofona del Canada, il liberale Philippe Couillard, ha tenuto una conferenza stampa per esprimere tutto il suo sgomento, Boufeldja Bewabdallah è voluto essere al suo fianco per testimoniare del radicamento della comunità islamica nel tessuto sociale locale.

PARLANDO CON I GIORNALISTI, l’uomo, arrivato negli anni Settanta dall’Algeria e tra i fondatori del centro culturale musulmano che comprende anche il luogo di culto colpito, ci ha tenuto però ad esprimere anche tutta la sua inquietudine, spiegando come da tempo si respiri nella regione «un clima di sospetto» nei confronti dei musulmani. «Provocazioni, violenze, insulti. Già prima della strage cominciavamo a sentirci a disagio, l’intolleranza nei nostri confronti sta montando ogni giorno di più, mentre il dibattito di fondo si fa sempre più velenoso», riassume Bewabdallah.

SE GLI INQUIRENTI privilegiano la pista del killer solitario, il fatto che Alexandre Bissonnette, il giovane di 27 anni con la passione per la caccia e le idee ultranazionaliste che lunedi sera ha mietuto 6 vittime tra i fedeli della moschea di Sainte-Foy, cuore storico di Québec City, non abbia goduto apparentemente di alcuna complicità, non significa che il gesto di cui si è reso protagonista riveli solo della sua probabile instabilità mentale.
Il terrore messo in atto dai cosiddetti «lupi solitari», come indica bene il caso dello stragista di Oslo Anders Behring Breivik, pur se legato a traiettorie individuali fa spesso eco a un clima di ossessione identitaria tutt’altro che marginale. Non a caso, anche Bissonnette, proprio come Breivik, avrebbe spiegato di aver agito in odio agli islamici e questo dopo aver espresso a lungo analoghe posizioni offensive e violente in rete. In questo senso, la strage del Québec interroga in maniera profonda la società franco-canadese, rivelando delle fratture a prima vista celate dal mai risolto conflitto sull’autonomia della belle province dal resto del Canada.

DA QUANDO LA LOTTA del Québec per il proprio riconoscimento come «nazione senza stato» era descritta in Europa nei termini della battaglia dei «negri bianchi d’America», in relazione ai contemporanei movimenti rivoluzionari degli afroamericani, come recitava il titolo di un celebre libro scritto da un militante del Front de libération du Québec, condannato in un primo tempo all’ergastolo per attentati che avevano fatto anche delle vittime, e pubblicato nel nostro paese nel 1971, molta acqua è transitata lungo il corso del fiume Saint-Laurent.

DOPO LA SCONFITTA riportata nei due referendum, svoltisi nel 1980 e nel 1995, in favore della piena indipendenza da Ottawa, la rivendicazione che era stata alla base della sua stessa nascita fin dal secondo dopoguerra, all’interno di importanti settori del movimento indipendentista, per decenni l’area politica più consistente e radicata della regione, è infatti emersa una crescente tendenza a tradurre in senso identitario un dibattito a lungo caratterizzato invece in termini sociali e culturali. Di ispirazione socialdemocratica, le due maggiori formazioni indipendentiste, il Parti québécois e il Bloc québécois, si sono spostate su posizioni via via più affini al centro-destra, specie il primo al cui vertice è stato per un certo tempo il magnate della stampa popolare locale, Pierre Karl Péladeau, i cui giornali hanno alimentato spesso il clima di sospetto intorno ai musulmani.

IL PUNTO PIÙ ALTO di questa autentica deriva, che ha prodotto anche significative scissioni a sinistra dal partito, si è toccato durante il mandato di Pauline Marois, leader del Pq e primo ministro della regione tra il 2012 e il 2014 che intendeva adottare una «Carta dei valori» del Québec per vietare l’esposizione dei simboli religiosi in pubblico, ma che è stata accompagnata da una campagna di stigmatizzazione soprattutto della presenza musulmana nella regione.

Malgrado l’esecutivo Marois sia caduto, sconfitto dai liberali, e gli stessi ambienti indipendentisti si siano divisi sul tema, il dibattito su immigrati e islamici è rimasto al centro dell’azione del partito che si è opposto di recente all’aumento degli ingressi nel paese auspicato dal primo ministro federale Justin Trudeau.

All’ombra di questa situazione si è assistito negli ultimi anni a un aumento delle azioni xenofobe e al crescere di gruppi, anche se ultraminoritari, dell’estrema destra. Un clima che ha fatto parlare un folto gruppo di intellettuali che ha chiesto attraverso una petizione l’apertura di una Commissione di inchiesta ad hoc al premier locale Cuillard, dell’esistenza di un «razzismo sistematico» nel Québec.