Cinquantuno film accreditati e «firmati» come regista, una ventina cui ha collaborato a vario titolo, uno rimasto incompiuto per il ritiro e poi la morte di Marilyn: non si può dire che nel corso di oltre cinquanta anni (dal 1929 al 1981) George Cukor non abbia indiscutibilmente edificato passo dopo passo, dopo un lento inizio alla Paramount sotto il segno della modestia e dell’apprendistato, non solo una carriera ma un’«opera» tra le più risplendenti e affascinanti del cinema hollywoodiano. Oggetto di discussione è semmai se quest’opera corrisponda alla poetica di un autore, o non sia invece il prodotto di un uomo il cui genio incontestabile si è applicato all’industria degli studios del periodo d’oro con metodo e disciplina, abilissimo e navigato «director» (come egli stesso ha sempre amato presentarsi) al servizio di un sistema di cui ha decantato le virtù e le grandezze. Per chi ha curato questa retrospettiva locarnese non c’è esitazione nella risposta. Poche settimane fa già Sergio M. Germani ha scritto su queste stesse pagine (in un testo sulla retrospettiva bolognese dedicata ad Allan Dwan) che una delle più geniali invenzioni della politica degli autori francese della fine degli anni Cinquanta è stata la consacrazione – dopo il primo periodo hitchcocko-hawksiano – di George Cukor e di Vincente Minnelli ad opera di un gruppo relativamente minoritario, soprattutto Jean Domarchi e Jean Douchet (ma anche Rohmer, Truffaut, Godard).

L’eterno inseguimento

Di famiglia ebrea emigrata dall’Ungheria a New York, prima di Hollywood Cukor ha potuto conoscere il mondo di Broadway. I riflessi del palcoscenico, il fascino dell’esibizione, l’eterno e reciproco inseguimento tra vita e teatro saranno una componente essenziale del suo cinema. La stessa mise en scène si realizza attraverso il gioco dell’attore e la sua pulsione allo spettacolo, ma a patto di capire che è nell’artificio e nell’illusione che appare la verità e che la finzione è già di per sé un mistero della vita, nel suo infinito gioco di specchi e di prospettive. Come dice Camille alla fine di La carrozza d’oro (film che peraltro Cukor dichiara di non amare): «Dove finisce il teatro, dove comincia la vita?», una frase che potrebbe ben suggellare anche l’eccentrica, funambolica carriera di travestista di Sylvia Scarlett in Il diavolo è femmina o le picaresche avventure nel selvaggio West di Angela Rossini con la sua compagnia di guitti in Il diavolo in calzoncini rosa. È stato Rivette a sostenere che il cinema ha un unico soggetto, il teatro. Cukor sa molto bene che questo teatro può essere tanto il vero e proprio palcoscenico di Broadway o di Parigi o di una troupe ambulante, quanto il mondo «reale»: una magione patrizia di Filadelfia, l’aula di un tribunale, lo studio del dottor Chapman con le sue sedute. Ma può essere anche un «piccolo teatro» personale e privato in cui rifugiarsi e costruire il proprio mondo «alternativo» a quello esistente così detestabile, come la meravigliosa e commovente camera dei balocchi e dei ricordi di Katharine Hepburn in Incantesimo (luogo segreto e baluardo contro l’intrusione del padre e dei terribili ricchi) o nelle fastose e colorate rievocazioni artificiali di zia Augusta di un sontuoso passato perduto o solo immaginato (In viaggio con la zia). Cukor appartiene dunque a quella generazione che è arrivata al cinema sonoro attraverso il palcoscenico, per aiutare gli attori impreparati ai dialoghi. Non succede anche a Hollywood come altrove che in quel passaggio si ritrovino anticipazioni sorprendenti della modernità? Non germinano lì quelle che poi saranno, ad esempio, alcune stupefacenti inquadrature lunghe di Cukor, del tutto inspiegabili all’interno delle regole del «découpage classico», in cui è la stessa macchina da presa a diventare personaggio, chiamando in causa nel suo sguardo il gioco della verità e della menzogna e sanzionando l’irriducibile distanza tra attore e personaggio, tra testo e ripresa? Non meno di Renoir, Rohmer o Warhol (non li cito a caso) Cukor è al 100% cineasta. Del resto fu Godard a dire che The Chapman Report (in italiano intitolato Sessualità) somigliava molto a La Pyramide humaine di Jean Rouch.

Intensa sensazione

Nella presentazione alla prima retrospettiva su Cukor organizzata da Langlois nel 1963, Jean Douchet scriveva che nei suoi film la donna accetta l’amore «offrendosi in spettacolo», e che «solo l’illusione le permette di provare l’intensa sensazione di vivere». Il «femminile» è sempre stato in Cukor il luogo dell’infinito travestimento, da cui anche la sua complicità con le grandi star. Il regista ha avuto ben presente – forse anche per la sua professione discreta e protetta di omosessualità in un’epoca di forzata segretezza pubblica per chi era ai vertici di Hollywood – il carattere di perpetua «messa in scena» orchestrata dalla differenza sessuale. La sfilata di moda a colori aggiunta a Donne non è in fondo fuori posto proprio perché di abiti, travestimenti, esibizioni, gioco delle apparenze, stiamo sempre parlando. Questa multiforme trasfigurazione del «femminile» possiamo trovarla sia nei tanti ritratti di gruppo (le quasi insopportabili arpie di Donne, le tre Girls con le loro diverse messe in scene musicali dai rispettivi colori, le quattro donne insoddisfatte dei suburbi agiati di The Chapman report) sia nelle figure doppie di Greta Garbo in Margherita Gautier e Two-faced Woman (Non tradirmi con me), di Katharine Hepburn in Il diavolo è femmina, di Gloria Swanson in Volto di donna, di Judy Garland in È nata una stella) di Judy Hollyday in Nata ieri e La ragazza del secolo, di Ava Gardner in Bhowani Junction. Possiamo vederne le variazioni finali nella splendida scena della moltiplicazione allo specchio di Anouk Aimé in Rapporto a quattro, nelle deliziose menzogne di zia Augusta in In viaggio con la zia, e nel meraviglioso duetto tra Jacqueline Bisset e Candice Bergen in Ricche e famose, sublime testamento conclusivo del regista.
Attraversando quasi per intero il «secolo breve», Cukor è stato anche tra i più lucidi e consapevoli nel cogliere dall’interno le contraddizioni della vita americana, una società «modernista» molto più avanzata rispetto alla vecchia Europa ma nello stesso tempo incapace di liberarsi del retaggio puritano sia nella morale sessuale sia nel predominio accordato al puro scambio economico nelle relazioni sociali. Non per caso il vecchio «marxista» Domarchi potè scrivere a proposito di La ragazza del secolo che «da nessun’altra parte si trovano espresse meglio che in questa storia le componenti essenziali della società americana». E non ha torto Jacques Lourcelles nell’insistere – tra i pochi – sul «senso del tragico» come cifra segreta del regista, scrivendo a proposito di Vivere insieme che «mai la commedia americana classica si è spinta così lontano nella descrizione ingrata e crudele della vita di coppia di due americani della classe media». Sì, davvero una visione lancinante e senza scampo del matrimonio, compresa la morte del bambino in una scena che lascia senza fiato per la sua impassibilità («Era un’idea coraggiosa mescolare tragedia e commedia? Non accade così anche nella vita?», dice serafico il regista). Negli anni cinquanta Cukor è autore di quattro film newyorkesi, L’indossatrice (un grande film misconosciuto da riscoprire), Mariti su misura, Vivere insieme e La ragazza del secolo, assolutamente anticipatori anche per le riprese in esterni urbani, la dimensione dimessa di banale quotidianità, il tono quasi da cinema diretto (non sembra casuale la professione di «documentarista» di Jack Lemmon nell’ultimo film citato). Raramente come in questi film è stata rappresentata con maggiore delicatezza e insieme durezza l’irreparabile, terribile inappagatezza della vita, la malinconia del passaggio del tempo, l’esistenza come rapida illusione, che poi ritroveremo in diverse decantazioni in tutti gli ultimi film.

Percorsi anomali

Cukor è un autore del classicismo americano? Questo classicismo è davvero mai esistito se non nelle tesi universitarie e nelle «storie del cinema»? Quando solo si esplori per un attimo la ricchezza ed eterogeneità di percorsi spesso completamente anomali e aberranti che si sono scavati un varco nella compatta stratificazione del sistema nell’epoca d’oro apparirà chiaro che anche i film di Cukor lungi dall’essere degli oggetti «perfetti» di alto o altissimo artigianato hollywoodiano contengono al loro interno delle crepe che ne fanno pericolare ambiguamente l’apparente identità. Parole come gusto, eleganza, prestigio, glamour, gradimento ben poco si prestano a definirli.
Più che l’età d’oro del classicismo americano, Cukor sembra incarnare una strada solo sua, un movimento quasi sperimentale verso la modernità («Cukor expérimentateur» è appunto una definizione di Domarchi) , ed è per questo che oggi è importante ritornare sulle sue tracce. Così apparve ai francesi che più di altri lo capirono e lo amarono a partire dagli anni Cinquanta, quando Luc Moullet poteva intitolare un suo articolo in epoca di già nascente Nouvelle Vague (1958): A 60 ans est-il devenu un jeune cinéaste? Mentre a Douchet apparve chiaro che il colore (usato magistralmente a partire da È nata una stella anche grazie alla collaborazione con George Hoyningen-Huene e Gene Allen), era «il tocco finale per portare a compimento l’opera». L’ultimo periodo del suo cinema, così sorprendente da The Chapman Report fino a Ricche e famose e ai due film tv, non impone allora di rivedere tutti i periodi precedenti?
Cukor ha sempre avuto ben presente che la guerra dei sessi, in un rimpallo inesauribile, è in definitiva anche la confusione dei sessi, malgrado la finale esclamazione di Tracy in La costola di Adamo sulla famosa «differenza». La pulsione alla «double life» dello spettacolo, all’illusione e all’artificio è connaturata all’essere umano, donna o uomo che sia, e anche Pigmalione (che può valere come metafora del regista) rimetterà in scena se stesso.