La «pensione di garanzia» cui anche il Pd e il governo sembrano aver aperto – vedi le recenti dichiarazioni di Tommaso Nannicini, Stefano Patriarca, Giuliano Poletti – è un’idea di Michele Raitano, docente di Politica economica alla Sapienza di Roma.

Raitano è molto ascoltato nell’ambiente Cgil, ha incontrato Nannicini in alcuni convegni quando quest’ultimo era sottosegretario e preparava la «fase 1» dell’accordo sulle pensioni, ha visto la propria ricetta inserita nel protocollo che prepara la «fase 2», di cui si dovrebbe discutere a partire da settembre.

Dando per ovvia la constatazione che siamo in qualche modo già in campagna elettorale, e che quindi non è semplice distinguere tra facili promesse e reali intenzioni, immagino però le abbia fatto piacere che la sua idea prenda piede. Ci dà innanzitutto una definizione?

La mia si chiama «pensione contributiva di garanzia» perché è coerente con il sistema contributivo e serve a garantire un pavimento sotto cui i futuri assegni non potranno andare. Valorizza gli anni di lavoro, e di attività in senso più ampio, come ad esempio la cura o la maternità.

Insomma sgombriamo il campo dall’idea che si possa trattare di una «pensione di cittadinanza», garantita a tutti. Esiste già l’assegno sociale.

Sì, la pensione contributiva di garanzia serve a tutelare i lavoratori che hanno versato pochi contributi, e che quindi sono destinati ad avere una pensione molto bassa, anche se sono stati molto a lungo nel mercato del lavoro. E questo può avvenire per tre ragioni: 1) se hanno aliquote molto basse, come accade per i voucher o accadeva per i cococò; 2) se hanno salari bassi anche con un’aliquota alta, poniamo ad esempio gli addetti alle pulizie o chi lavora part-time nella grande distribuzione; 3) se ci sono lunghi periodi di non lavoro o intermittenza occupazionale e dunque di non contribuzione. È, quest’ultimo, l’elemento che incide di più, ma i tre fattori spesso interagiscono tra loro, aggravandosi vicendevolmente.

Come agire quindi?

La mia proposta prevede di garantire un pavimento sotto cui non si può andare in base agli anni di attività svolta – includendo i periodi di cura, la maternità, la ricerca attiva di un lavoro – e all’età di uscita. Nelle mie ipotesi, a un lavoratore che uscisse a 66 anni con 42 anni di attività sarebbe garantito un lordo annuale di 14 mila euro, circa 920-930 euro netti al mese. A uno che invece avesse solo 30 anni di contributi, alla stessa età di ritiro, corrisponderebbe un lordo di poco più di 10 mila euro, circa 650 euro al mese. Una cifra più bassa, ma certamente più alta dei 448 euro di assegno sociale. La differenza tra quanto hai costruito con i contributi e il pavimento viene coperta dalla fiscalità generale: ma ovviamente se stai già sopra non si interviene.

Non basterebbe allungare la permanenza al lavoro? Altri, come Cesare Damiano, propongono uno zoccolo uguale per tutti a cui sommare i contributi, o la copertura figurativa dei periodi di non lavoro.

Il mio sistema interviene soltanto alla conclusione del periodo lavorativo, per diverse ragioni. Innanzitutto non basta allungare l’età di uscita perché non è detto che se sei sfortunato all’inizio della carriera, poi tu non lo sia anche dopo i 50 anni: non faresti altro che prolungare quei tre difetti di cui parlavo, senza accrescere granché il tuo assegno. E se invece fai una stupenda carriera in tarda età? A quel punto aver coperto figurativamente i periodi precedenti di non lavoro diventa uno spreco di risorse per una persona che non ha più bisogno. Lo zoccolo uguale per tutti con taglio immediato delle aliquote non mi convince, anche perché ha un elevato costo immediato per i conti pubblici dato che si associa alla riduzione dell’aliquota del sistema a ripartizione. Invece con la mia proposta il costo emerge solo dal 2040, perché parliamo delle generazioni che hanno cominciato a lavorare dal 1996, anno di avvio del contributivo. E non tutelerebbe soltanto i discontinui, ma anche chi ha aliquote e redditi bassi.

Che grado di copertura avrò rispetto al salario medio?

A 66 anni di età con 42 di attività il sistema dovrebbe garantire circa il 60% del salario medio di un lavoratore della stessa età, quota difficilmente raggiungibile da molti degli attuali 30-40enni, date le carriere che si sono osservate dal 1996 in poi. Negli ultimi 10-15 anni un buon 50% di lavoratori ha versato contributi molto scarsi: rischiano di avere una pensione non superiore a quella sociale. Cosa dovrebbe spingere questo tipo di lavoratore, a quel punto, a versare i contributi? Penserà che è meglio lavorare in nero e aspettare l’assegno sociale. Tenere in equilibrio il sistema è anche trovare i giusti incentivi perché tutti sentano il desiderio di contribuire.