A meno di due ore di macchina da New York, Orient non ha però il profilo degli Hamptons. Dalla celebre zona di Long Island da tempo colonizzata da alcune delle più ricche famiglie newyorchesi la separa prima di tutto il fatto che qui i vecchi abitanti sembrano opporre una certa resistenza all’arrivo di una colonia di artisti che hanno lasciato le gallerie di Manhattan. Anche se la convivenza si fa ogni giorno più difficile e si trasformerà in dramma quando nella cittadina arriva Mills, un giovane vagabondo cui in molti attribuiranno la responsabilità per una serie di morti misteriose che iniziano a verificarsi in quello che è sembrato essere a lungo un paradiso naturale selvaggio e incontaminato.
Critico e giornalista, collaboratore della rivista Interview e del New York Times, Christopher Bollen, ha costruito con Orient (Bollati Boringhieri, pp. 674, euro 20) un thriller letterario di straordinario fascino, capace di indagare gli oscuri fantasmi che albergano in una comunità chiusa, inquietante metafora dell’America di Trump. Bollen sarà ospite sabato del Festivaletteratura di Mantova.

Una cittadina collegata al resto del mondo da un ponte, una comunità formata da famiglie che si conoscono da sempre, una minaccia che anche se nessuno vuole ammetterlo, non può che venire da «dentro». A meno di due ore da New York, sembra andare in scena un crimine degno dei manieri della campagna britannica e dei delitti della «camera chiusa» di Agatha Christie.
Devo confessarlo: il ricordo di Agatha Christie mi ha perseguitato mentre scrivevo Orient. Sono cresciuto con i suoi libri e quando avevo 10 anni devo essere stato il bambino più strano di Cincinnati: la mia cameretta era tappezzata con i poster dei film tratti dai suoi romanzi e dalle storie di Poirot e Miss Marple. In un certo senso, mi sono allenato a scrivere dei thriller per tutta la vita. Al tempo del college ho lasciato Agatha Christie per autori più «impegnati», ma poi mi sono reso conto che era possibile cercare di scrivere un’opera letteraria che contenesse però anche un mistero e qualche omicidio. La piccola città che è al centro di questo romanzo mi ha ricordato proprio quelle proprietà di campagna dove tutti i sospettati sono costretti a rimanere per un intero fine settimana che si incontrano nei romanzi di Christie. Quando l’ho visitata la prima volta ho capito che sembrava fatta apposta per un thriller.

Sullo sfondo della comunità chiusa di Orient va in scena una sorta di «scontro di civiltà» tra i vecchi abitanti e gli artisti che arrivano da New York.
Tutti, o quasi, amano l’arte e apprezzano il valore della creatività, ma questo non significa che vogliano dei giovani artisti come vicini di casa. Anch’io ho scoperto Orient dopo che diversi amici artisti avevano comprato una casa lì, accanto a famiglie di ex contadini e di persone che avevano scelto la campagna proprio per starsene lontano da New York. Col passare del tempo, questa gente ha visto i propri vecchi vicini andarsene, rimpiazzati da questi bohemien milionari che a loro volta hanno stretto legami con i ricchi locali, finendo così per essere degli «estranei» molto particolari. E i conflitti che la storia esplora si giocano proprio su queste contraddizioni.

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Gli artisti «ribelli» sognano il barbecue domenicale come una qualunque famiglia della working class. Una piccola vendetta verso un ambiente che ha frequentato a lungo?
Diciamo che molti miei amici artisti amano pensare a se stessi come a dei «radicali», anche se in realtà stanno prendendo lezioni di cucina. In realtà mi preoccupo per il futuro dell’arte contemporanea, per il modo in cui un artista viene considerato in base al denaro che guadagna e ai prezzi delle sulle opere nelle aste piuttosto che dal talento che esprime. Perciò, credo che un po’ di ironia serva a riportare tutti con i piedi per terra.

In quello che può apparire a prima vista come un paradiso naturale, sereno e silenzioso, abitato da persone riservate e perbene nessuno è  davvero al sicuro.
L’apparenza inganna. Eppure in una piccola città le apparenze sono fondamentali. Ed è una tradizione molto americana: se ti comporti bene, sarai felice. Una sorta di follia della perfezione particolarmente presente nelle piccole comunità. La mentalità del Sogno Americano del secondo dopoguerra è sembrata a lungo un modo concreto e realistico per organizzare la vita delle persone. Hai una casa perfetta, dei bambini perfetti e via dicendo. Ma nel XXI secolo quello stile di vita bianco, eterosessuale, di classe medio-alta ha cominciato a perdere pezzi. E nel mio romanzo lo prendo letteralmente a picconate. Ho cercato di mostrare la fine di quella vecchia idea di America e di come qualcosa di nuovo, instabile, rischioso, ma anche per certi versi entusiasmante ne stia prendendo pian piano il posto.

La paura e i segreti finiscono per dominare l’orizzonte di questa comunità. Il romanzo è stato scritto durante la presidenza Obama, ma non si può evitare di vedere in tutto ciò uno spaccato della realtà americana dell’«era Trump». I confini di Orient vanno ben al di là dello Stato di New York?
Mi dispiace molto dover ammettere che gli Stati Uniti hanno sempre avuto paura degli stranieri, dei diversi, di ciò che «c’è fuori». La novità è che Trump ha ribadito e celebrato pubblicamente quel tipo di odio e paura, attraverso un patriottismo da brividi. Ciò che temo di più è che una delle ripercussioni a lungo termine di questa politica possa essere proprio la piena «normalizzazione» dell’odio, dell’anti-intellettualismo e, in ultima analisi, di un rifiuto di ogni umanità. Trump è però solo un sintomo di un problema più grande.

Nel romanzo emerge la curiosità per il modo in cui ogni sorta di teoria complottista è diffusa tra gli americani. Si tratta anche di un «fascino narrativo» che non sfugge a uno scrittore?
Penso che le teorie del complotto siano quasi una religione nazionale negli Stati Uniti, una religione molto pericolosa. Chi scrive romanzi cerca di inventare storie che si adattino a un mondo normale. E il complottismo cerca di dare un senso al mondo, partendo però da un assoluto disprezzo per i fatti reali. È uno strumento comodo per fare i conti con il caos che ci circonda. Se non sai perché è successo qualcosa – e se non hai accesso alle informazioni o all’educazione necessari per comprendere – puoi mettere insieme una storia assurda che ti fa sentire che esiste un ordine o un controllo supremo che regola l’universo. Non a caso sono la destra e l’estrema destra che cavalcano queste tesi. Che con Trump sono tornate in auge come una specie di vendetta sulla cultura progressista.

Mancano pochi giorni all’anniversario dell’11 settembre, in «Lightning People», il suo primo romanzo ancora inedito in Italia, lei descrive New York come una città in cui convergono tutti coloro che vogliono «emanciparsi della prigione della loro infanzia – un buco nero dell’identità americana, la città di tutte le reinvenzioni». Come si è reinventata la metropoli dopo il trauma delle Torri Gemelle?
Nessuno che si sia trovato a New York quell’11 settembre potrà mai dimenticare davvero quella catastrofe né pensare che non ci sia più bisogno di ricordare. Ma New York è guarita e ciò è stato possibile perché si tratta prima di tutto di una città perennemente «in transito». La maggior parte di chi ci vive, proprio come me, affitta un appartamento, non lo compra. Si sposta da un quartiere all’altro, da un edificio all’altro ogni quattro o cinque anni al massimo. Più della metà dei miei amici del 2001 si sono trasferiti nel frattempo in altre metropoli o nazioni. La Grande Mela è formata sempre da gente nuova: la sua popolazione affronta un turnover costante. Da queste parti, una banca della memoria non avrebbe alcun senso: il passato ha una durata molto breve a New York.