Una impalcatura da cantiere copre l’intera parete di fondo del Teatro Massimo. La prima immagine che si presenta allo spettatore suggerisce dunque la presenza di qualcosa in costruzione nella Passione secondo Giovanni allestita in forma scenica con la regia di Pippo Delbono (lo spettacolo è prodotto dal teatro palermitano insieme all’Opera di Roma e al San Carlo di Napoli, in replica ancora questa sera). Ma un’altra immagine vi si innesta: un tavolo lungo e stretto che inevitabilmente richiama l’iconografia dell’Ultima cena leonardesca e però anche il momento iniziale, per chi vi ha assistito, dell’ancora recente Vangelo dell’artista ligure. È come se Delbono immaginasse qui un terzo tempo del cammino che sta compiendo verso la figura del Cristo, dopo l’opera contemporanea sulle musiche di Enzo Avitabile e dopo il film presentato a Venezia.

Come se nessuna forma forma fosse in grado di contenerla per intero, e torna allora l’idea di un cantiere che si presta per altro a diverse suggestioni.Attorno al tavolo stanno seduti all’inizio i sei cantanti cui sono affidate le parti soliste della composizione. Vestiti eleganti, a denotare in partenza il lato borghese della rappresentazione. La polifonica opera di Bach deve in realtà una larga parte della sua capacità emozionale alle parti corali che si frappongono alle arie, dando respiro alla narrazione che ha una duplice polarità nella figura dell’Evangelista e nel Cristo, dove alle parole di Giovanni si intrecciano altri innesti testuali – gli altri quattro interpreti sono piuttosto delle voci, laddove emerge l’ambiguità dei loro ruoli, al baritono è affidata tanto la parte di Ponzio Pilato quanto quella dell’apostolo Pietro.

Dato atto dell’impeccabile prova dell’orchestra diretta dal maestro Ignazio Maria Schifani e delle masse corali (c’è anche un coro di voci bianche ad arricchire la polifonia), ciò che con più evidenza risulta manifesto nella coraggiosa e riuscita prova palermitana è la forzatura con cui Delbono fa proprio lo spettacolo, per restituirne un senso che vada oltre a quello del puro piacere della musica e della vocalità. Cioè per restituire la Passione secondo Giovanni a una liturgia, dopo tutto non era destinata in origine a essere eseguita in un teatro. Liturgica è la sua presenza sulla scena, che percorre prendendo per mano gli interpreti e arrampicandosi da solo sui praticabili dell’impalcatura, in mano un microfono e la manciata di fogli del testo che si è ritagliato. La sua voce si sovrappone a quella del coro e alla musica, con la medesima intenzione musicale.

Se dapprima tornano motivi già consumati in Vangelo (l’odore dell’incenso nelle chiese della giovinezza, la fede della madre…), diventa poi sempre più chiaro dove porti quel suo cammino. Ridare senso concreto alla Passione, non per caso la musica si interrompe per metterci di fronte ai suoni della frusta e del martello sui chiodi. Mettere al centro gli ultimi, farsi soccorrere da loro, dai più fragili. Qui il linguaggio gestuale di un gruppo di sordomuti si accosta al silenzio dei migranti già urlato in Vangelo, al grido di Bobò in veste di coreuta, presenza da tempo imprescindibile del suo teatro. «Crocifiggi, crocifiggi», si alza la voce del coro, mentre i palchi si illuminano e Delbono percorre la sala chiamando la partecipazione di tutti. Che qualcuno ne sia disturbato è un ottimo segno.