I resoconti giornalistici ci hanno consegnato l’immagine di un Secondo Casadei, il re del liscio e il papà del suo inno Romagna mia, campione del tradizionalismo, alfiere di un’Italia provinciale, refrattaria alle novità e nemica dei balli moderni. A smentire questo pregiudizio basterebbero i versi di un suo brano del 1928, La nostra orchestra: «La danza nuova o quella antica/È ugual fatica che noi facciam/Il nostro scopo è solo uno/che mai nessuno s’abbia a lagnar…».
Per Aurelio Casadei, detto Secondo, nato nel 1906 in Romagna a Sant’Angelo di Gatteo, l’imperativo è sempre stato quello di far ballare. Scorrendo la sua biografia e ascoltando la sua musica, più di mille composizioni, ne esce il profilo di un musicista per nulla conservatore, anzi potremmo dire un antesignano del musicista glocal. L’atteggiamento di Casadei è quello di un modernista pienamente consapevole e informato, con una idea ben precisa nel voler perseguire una sintesi tra radici e innovazione. Ne sono testimoni i brani incisi a partire dal 1928 fino al 1948 raccolti in Secondo Casadei e la sua orchestra: le origini, volumi 1 e 2 ( Casadei Sonora 1996/2006). Si tratta di trentadue brani originariamente pubblicati su 78 giri che possono riservare più di una sorpresa.
MODA IMPERANTE
Quando Secondo Casadei forma la sua prima orchestra ha soli ventidue anni, una passione incontenibile e l’irruenza necessaria per cambiare tutto. Ha ascoltato e visto le orchestre nelle località balneari. Nuovi ritmi, nuovi strumenti, nuovi modi di presentarsi. Racconta la figlia Riccarda che «quando decise di lasciare l’orchestra di Emilio Brighi e formarne una propria inserì il sax alto, il banjo e la batteria che per i tempi erano una rivoluzione, inserì anche un cantante dotato di megafono, cosa che non si usava e che gli procurò parecchie critiche». Ma non basta perché oltre agli strumenti dota l’orchestra di divise, utilizza da subito l’incisione discografica e promuove la sua musica con partiture, locandine e cartoline. Si teneva aggiornato su tutte le novità e in particolare sul jazz, che allora era la moda imperante. Continua la figlia: «Non avendo ancora un grammofono andava ad ascoltare i dischi a 78 giri da un vicino fino a quando non riuscì a comprarsene uno. Trascriveva la musica direttamente dai dischi. Il babbo era amante di tutta la musica, direi che viveva per la musica. Amava il jazz e ne aveva molti dischi; il suo musicista preferito era Duke Ellington, e poi Louis Armstrong, Ella Fitzgerald, Count Basie, Charlie Parker, Stan Getz. Aveva conosciuto il jazz dalle orchestre che si esibivano negli alberghi della Riviera e poi dal cinema».
Dal jazz prende strumenti, modalità e ritmi. Esemplari sono a questo proposito l’uso della sordina che possiamo ascoltare nel one-step Oh Ninì e Ridi Pierrot, i break nel fox step Piccola Lady oppure gli effetti umoristici del sax che imita una risata singhiozzante nel fox-trot Scherzando col sax, che divenne più tardi sul clarinetto un marchio di fabbrica delle polche del liscio romagnolo. Interessante è anche lo slow Baciarti così che riprende gli stilemi del jazz italiano del periodo anche nel cantato. Nelle incisioni degli inizi questi brani sono alternati a valzer, mazurka, polca, java, pasodoble, tango.
Quella di Casadei insomma era una appropriazione del jazz più che una adesione. L’uso spregiudicato e intelligente di un musicista ben radicato nelle tradizioni del territorio ma curioso del mondo ed estraneo a ogni idea di purezza e autenticità astratta e, in definitiva, regressiva. Proprio quella concezione che il fascismo invece promulgava ossessivamente. Casadei incide, beffandosi contemporaneamente della doppia ostilità fascista per i dialetti e per i balli stranieri, i primi ballabili cantati in romagnolo: Un bès in biciclèta, Burdèla avèra, Rumagna a premavera.
DIALETTI
Dialetti e balli stranieri erano visti come incompatibili con l’ideale dell’uomo nuovo sulla cui costruzione il fascismo aveva puntato tutto. I giovani, principali destinatari degli sforzi del regime, si rivelarono però impermeabili alla sua ideologia, così come le classi popolari, e la riprova fu quando, dopo la caduta della dittatura, andarono in massa ad ingrossare le file della Resistenza. Proprio sul terreno nel quale aveva scommesso di più il fascismo dimostrò il suo fallimento.
Quello di Casadei non era tanto un antifascismo politico quanto piuttosto un antifascismo «esistenziale» perché al rigore opprimente delle retorica del regime che pretendeva spirito di sacrificio e rigore marziale le sue musiche proponevano uno stile di vita gioioso e sbarazzino. Alla morale cattolica che imponeva la separazione tra i sessi e aborriva l’abbandono dei sensi rispondeva con l’invito ad amoreggiare in Un bès in biciclèta (1936): «Un bès in biciclèta/Cun li disdèj ins e’tlèr,/la zèrca ad tnèis bèn strèta/pr’advej ad ciapèn un pèr./Pruvé, pruvé, burdéli,/e pou a m’daréj rasòun,/l’è un bès c’u v fa avdèj al stéli,/e u v’dà sudisfaziòun (Un bacio in bicicletta/Con lei a sedere sul telaio/Cerca di tenersi ben stretta/Per vedere di prendere un paio di baci/Provate provate ragazze/E poi mi darete ragione/È un bacio che vi fa vedere le stelle/E vi dà soddisfazione)». E ancora in modo più esplicito in Balla balla (1948): «Balla, balla la mazurca/La mazurca romagnola/Stretti, stretti cuore a cuore/Mentre si danza si fa l’amore».
SAPORI VINTAGE
Pur nella sua unicità il jazz nel repertorio di Casadei con tutta probabilità era lo stesso presente nelle tante orchestre da ballo popolari che animavano l’Italia, almeno del Nord, tra le due guerre mondiali. È necessario inquadrare la sua attività musicale anteguerra all’interno del clima generale del periodo. Un’epoca nella quale le orchestre da ballo più avanzate proponevano una serie di danze che andavano dal jazz, alle danze latinoamericane, tango e rumba su tutte, a danze europee come il valzer, nelle sue varianti nazionali e locali. Erano così composti gli spettacoli del celebri capiorchestra inglesi come Jack Hylton, Bert Ambrose (anch’egli violinista come Secondo Casadei), Roy Fox oppure del canadese Guy Lombardo, esecrato dai critici ma amatissimo da Louis Armstrong, i cui concerti di Capodanno erano popolarissimi. In Italia il musicista più conosciuto in questo particolare genere era Cinico Angelini, a lungo direttore di una orchestra all’Eiat, l’ente radiofonico nazionale durante il fascismo, con cui debuttò il Trio Lescano e che lo stesso Casadei riconosce come riferimento quando annota nel suo diario «ero chiamato l’Angelini di questa terra».
IL MONDO ACCADEMICO
Il grande storico inglese Eric J. Hobsbawn ha ricordato che «il jazz si fece strada e trionfò non come musica per intellettuali, ma come musica per ballare». Lo storico si riferiva alla situazione della Gran Bretagna ma noi in Italia non abbiamo avuto un Hobsbawn che ci raccontasse il jazz dal punto di vista delle classi popolari. Il mondo accademico con la sola eccezione di Alfredo Casella, peraltro figura autorevole ma isolata, ha sempre considerato il jazz alla stregua di un incidente della storia da archiviare al più presto. La storiografia del jazz se n’è sempre occupato dal punto di vista del proprio ceto sociale, la borghesia urbana e intellettuale, che avendo in mente un ideale di musicista individualista e romantico ha tagliato fuori sia il jazz nella canzone che quello da ballo. Ci sono voluti il revival neo-swing, il proliferare dei gruppi di ballo, la riscoperta del burlesque e in generale l’amore per tutto ciò che ha un sapore vintage per fare riemergere la nostra «età del Jazz».