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La partita della libertà

La partita della libertàBihać campo informale di Borici esterno edificio – enrico_carpegna©

Reportage Tra Bosnia e Croazia si gioca il futuro di migliaia di profughi

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 23 febbraio 2019

Lo chiamano The Game, La Partita. Si gioca ogni giorno a Bihać e Velika Kladuša, le due cittadine principali del cantone di Una Sana, nella zona nord occidentale della Bosnia Erzegovina, al confine con la Croazia. Le regole di The Game sono molto semplici: vince chi riesce a entrare clandestinamente in territorio croato, e da lì in Slovenia, la porta d’Europa. Le probabilità di successo sono vicine allo zero, e il prezzo di ogni tentativo è fatto di terribili piaghe ai piedi, rischio di morte per assideramento nei mesi invernali, respingimenti individuali e collettivi a suon di botte. Potrebbe somigliare, questa storia, a quelle di altri migranti in altri luoghi, dal Mediterraneo alle montagne piemontesi.

Non è così. L’UNHCR stima che nel 2018 siano transitati per la Bosnia Erzegovina oltre ventiduemila profughi, contro i 1166 del 2017. Una cifra in difetto, sempre secondo UNHCR, perché il novanta per cento degli ingressi non viene registrato. Quanto ai seimila profughi presenti attualmente a Bihać e Velika Kladuša, nella stragrande maggioranza uomini tra i diciotto e i quarant’anni, per ‘registrati’ si intende che di loro si conosce generalmente soltanto la nazionalità: 34% pakistani, 16% iraniani, 12% siriani, 9% iracheni, i restanti da altri sessantasette paesi o gruppi etnici, secondo i dati della Federazione Internazionale della Croce Rossa.

Ma seimila è di nuovo un numero improbabile, desunto dai pasti serviti nei centri di accoglienza e nelle tendopoli, in mancanza però della certezza che a consumarli siano gli stessi individui del giorno prima. Il popolo dei senza nome stenta a sopravvivere nel Camp Borici, ex Casa dello Studente di titoista memoria, e nella ex fabbrica di elettrodomestici Bira, a Bihać; nei capannoni dismessi della Miral, forniture per l’edilizia, a Velika Kladuša, e nelle tendopoli ‘informali’ allestite intorno a questi edifici. L’Unione Europea ha stanziato nove milioni e duecentomila euro in aiuti dal maggio del 2018, operazione che accanto alla valenza umanitaria sembra orchestrata per evitare la soluzione concreta di un dramma ancor più grande delle cifre attraverso le quali si esprime.

Dramma di cui sono stati testimoni, nel dicembre del 2018, Maria Perino, attivista ventennale di ADL Zavidovici, Associazione per l’Ambasciata della Democrazia Locale, e William Bonapace, docente di filosofia presso un liceo torinese e ricercatore di IDOS (Dossier Statistico Immigrazione) di Roma, insieme al fotografo Enrico Carpegna che lo ha documentato per immagini. Afferma Maria «L’UE sta spendendo molti soldi per creare, lo dicono con chiarezza alcuni suoi documenti ufficiali, delle situazioni, cioè dei luoghi, dove le persone rimangono in una sorta di immobilità che alla lunga dovrebbe portarli a desistere dal tentativo di entrare in Europa. L’immobilità fa altrettanto comodo alle autorità bosniache, per nulla interessate a identificare chi arriva, pena il rischio di eventuali richieste di asilo. Dare nome e cognome non interessa neppure ai profughi.

Se ti identificano, sei fuori da The Game. La Bosnia ha scaricato sulla IOM, l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, il compito di occuparsi della logistica, di sistemare i locali, di gestire i fondi erogati dall’Europa». Non va poi trascurata la realtà economica e sociale del cantone di Una Sana. Sottolinea Perino «Il periodo di transizione dopo la guerra ha disatteso le illusioni della gente. Alcune importanti industrie sono state chiuse, ed è in atto un forte spopolamento cui si è contrapposto l’ondata dei migranti. Nel corso del Global Compact di Marrakech (a dicembre 2018, ndr), l’intervento della Bosnia si era incentrato proprio sul rapporto tra la popolazione e i migranti, evidenziando che l’accoglienza dimostrata nei loro confronti nasceva dal ricordo di anni terribili.

Tuttavia, solo la collaborazione con gli altri paesi avrebbe potuto impedire che le cose degenerassero. Come infatti sta avvenendo». William Bonapace «Per fare un esempio di casa nostra, i profughi che lavorano nei campi del Saluzzese vivono lontani dai centri abitati. Quelli di Bihać li abbiamo visti frequentare i bar, entrare nei negozi, passeggiare per strada, sempre trattati con gentilezza. Non va dimenticato, poi, che la loro presenza ha generato un piccolo giro di affari per i commercianti della zona». Ciò nonostante, soprattutto nel campo della ex fabbrica Bira di Bihać, la precarietà delle condizioni di vita e l’esasperazione hanno iniziato a generare episodi di violenza esterni e interni. Per citarne due tra i più recenti, il 17 gennaio 2019 cinque migranti hanno rapinato alcuni passeggeri del treno Sarajevo – Bihać e sono fuggiti nelle campagne portando con sé denaro, ricariche per i cellulari, cibo.

Il 2 febbraio, all’interno della Bira, una gigantesca rissa ha provocato decine di feriti e gravi danni. Undici gli arresti, sequestrati coltelli e armi improprie. Episodi come questi non possono che minare i rapporti con una popolazione già duramente messa alla prova su altri fronti. Il 13 febbraio, un’operatrice ha scritto a Maria Perino «La situazione è al momento sotto controllo, ma ci sono questioni mediche gravi: gente con cancro, cancrene, necrosi, ferite…malamente curati …Il Bira resta una cosa schifosa, sotto l’egida UE e IOM». Altrettanto schifose le condizioni e le conseguenze di chi partecipa a The Game, da solo o con l’aiuto a caro prezzo dei passeur, sfidando il freddo assurdo dell’inverno per attraversare boschi e colline con sacchetti di plastica al posto delle calze, poco o nulla da mangiare, abiti comunque inadatti ad affrontare temperature estreme.

Google Maps fissa in sei/ otto chilometri la distanza che separa l’ex fabbrica Miral di Velika Kladuša da Maljevac. A piedi ci vuole un’ora mezza. Se riesci ad arrivare a Maljevac sei in Croazia, hai vinto. Il filo sottilissimo della speranza lo spezza in ogni stagione la polizia. Respingere significa picchiare, infliggere abusi di ogni genere, fare a pezzi i cellulari; rifiutarsi di soccorrere donne, bambini, feriti. Il MOI, il Ministero degli Interni croato, nega o minimizza. Testimonianze e video lo smentiscono. Julian Koeberer, funzionario per gli affari umanitari negli stati balcanici del nord «La quantità di accuse è schiacciante, deve essere presa sul serio e investigata in modo trasparente e approfondito». In un rapporto dello scorso gennaio, la ong spagnola NoNameKitchen segnala un calo delle brutalità poliziesche a favore di un cambio di tattica: respingimenti rapidissimi, neppure il tempo di aprire bocca. La crudeltà si nutre anche di ipocrisia.

ACCETTARE LA SFIDA PER ANDARE OLTRE

A Velika Kladuša, gli impianti dismessi del gigante alimentare Agrokomerk, che dava lavoro a tredicimila persone, sono lo specchio di una crisi priva di una via di uscita. I vecchi ricordano i primi anni ’70 del secolo scorso, quando Fikret Abdić detto Bobo, grazie a protezioni e collusioni con il governo centrale trasformò la cooperativa Agrokomerk in un impero. Da lì in poi, la storia di Bobo sarà costellata di truffe, trionfi politici orchestrati con cinismo, condanne giudiziarie; stragi compiute dai miliziani della Regione autonoma della Bosnia-occidentale, da lui proclamata il 29 settembre 1993, in piena guerra dei Balcani, per le quali verrà condannato a vent’anni galera. Nel 2016, l’ottantenne Abdić è diventato sindaco di Velika Kladuša, confermando la definizione di ‘Figura più paradossale della politica bosniaca negli ultimi tre decenni’, coniata dal giornalista Alfredo Sasso. Velika è una città dove i disoccupati sono il doppio di chi ha un lavoro e la Agrokomerk è fallita portandosi sulle spalle un debito di settanta milioni di euro.

Da lì, Marta Perino, William Bonapace ed Enrico Carpegna hanno iniziato il loro viaggio tra i profughi senza nome. Bonapace «Una volta parcheggiata l’auto, ci siamo incamminati per le vie della cittadina. Gli immigrati erano così numerosi da dare l’impressione di appartenere alla quotidianità di Velika, infatti affollavano il bar nel quale pochi minuti dopo siamo entrati. Tre di loro ci hanno chiesto chi fossimo, perché eravamo lì, e si sono offerti di portarci al campo. Lungo la strada, due operatori della Ong NoNameKitchen stavano medicando le piaghe e le ferite ai piedi di alcuni profughi che avevano fallito il tentativo di passare in Croazia. Seconda sosta la Pizzeria Teferi

, di proprietà di Asim Latić Latan, un volontario che si occupa della preparazione e della distribuzione dei pasti caldi, aiutato da altri volontari di varie nazionalità. Appena fuori dall’abitato il capannone della Miral, ex fabbrica di materiali per l’edilizia. In quei giorni era in corso il trasferimento alla Miral di settecento profughi dai campi informali di Trnovi, nei dintorni di Velika Kladuša. Per questa ragione non ci hanno concesso l’autorizzazione ad entrare». Avete parlato con chi vi accompagnava? Maria Perino «Ero già stata a Velika, e anche allora mi aveva colpito l’approccio immediato dei profughi con gli stranieri. Come se cercassero di costruire dei contatti. Nel nostro caso erano due algerini e un ex militare libico. Le risposte a ‘Chi sei, cosa facevi?’ sono sempre racconti stereotipati, copioni prestabiliti.

Queste persone hanno progetti e storie che, giustamente, non intendono condividere con nessuno». Bonapace disegna la mappa del mondo del volontariato «Un ruolo preminente lo svolge IOM, l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni. Per quanto riguarda Velika Kladuša sono attive due realtà indipendenti. Le ho già citate: oltre alla Pizzeria Teferi, NoNameKitchen, che sostiene e cura coloro che tentano di attraversare il confine. Durante l’inverno, inoltre, provvede ai rifornimenti di legna, scarpe, abiti, coperte. Terza presenza Medici Senza Frontiere.

Diversa la situazione di Bihać. All’epoca del nostro viaggio, circa ottocento profughi occupavano ancora la Casa dello Studente, in località Borici, mentre era in via di ristrutturazione per trasferirvi le famiglie alloggiate all’ex Hotel Sedra, nella vicina Cozin. I profughi della Casa sono stati ricollocati all’interno della vecchia fabbrica di elettrodomestici Bira. Importante la presenza dell’IPSIA, Istituto Pace Sviluppo Innovazione ACLI, rivolta alla socializzazione tra adulti e alle attività per i bambini. La Mezza Luna Rossa ha messo in piedi quattrocento tende fuori dalla Bira. A fronte di tutto questo, l’impressione è che non ci sia un vero coordinamento e che ciascuno vada avanti per contro proprio. Esistono poi gravi lacune, come l’assenza di interpreti e di mediatori culturali».

I profughi di Borici. Maria si prende il tempo di un lungo respiro «Nell’ex dormitorio degli studenti, abbandonato da decenni, siamo entrati verso sera grazie a Silvia Maraone dell’IPSIA, dopo aver consegnato i passaporti a un addetto del servizio di sorveglianza del comune di Bihać. Accertava l’identità di tutti, ma non degli uomini che a centinaia erano ammassati l’uno sull’altro, senza luce, in mezzo al fumo dei fuochi accesi per riscaldarsi. Il freddo e l’umidità tremendi li costringevano a seppellirsi di maglioni e coperte. Niente letti: dormivano per terra o in minuscole tende. All’esterno sette o otto bagni, e accanto delle piastre per fare il pane.

La Croce Rossa forniva quotidianamente tra i settecento e i mille pasti. Donne e bambini erano stati portati a Cazin, perché di notte Borici era diventato un luogo troppo pericoloso». Gli spazi della Bira lasciano intravvedere condizioni di vita meno tragiche «Era in corso il montaggio di tendoni riscaldati che successivamente sarebbero stati divisi per settori, mentre funzionavano già dei bagni e delle docce interni, comunque in numero non sufficiente, ai quali si sarebbe aggiunta una lavanderia. Mentre eravamo lì, due ragazzi stavano montando una sedia e una panchetta su cui avevano disposto la loro attrezzatura da barbiere: forbici, pettine e rasoio. Molto orgogliosi, hanno chiesto a Enrico di fotografare il ‘negozio’». Ascoltando i vostri racconti, affiora una domanda: oggi, ciò che si fa a Velika Kladuša e Bihać è soccorrere migliaia di esseri umani.

Esiste la possibilità di un progetto che riesca ad andare oltre? William Bonapace «Me lo sono chiesto, non ho una risposta. Cos’altro possono fare NoNameKitchen, il pizzaiolo Asim Latić Latan, la stessa Medici Senza Frontiere? Non si riesce ad andare oltre perché si rimane incastrati in un meccanismo politico di cui ciascun volontario diventa suo malgrado complice con il proprio lavoro». Forse, da queste parti, andare oltre significa una cosa soltanto: accettare la sfida, giocare la scommessa di The Game.

LA MOSTRA

Una ventina di fotografie dal reportage di Enrico Carpegna diventeranno oggetto di una mostra, Balcanica, di prossima programmazione. Le immagini non verranno proposte nella versione a colori e su carta, bensì in quella realizzata con una fotocamera a infrarossi e stampata su tela. Spiega Carpegna «La fotocamera a infrarossi si usa normalmente per visioni al buio. La ritenevo quindi particolarmente adatta per sottolineare la condizione di questi uomini braccati, isolati al punto da riuscire a renderli invisibili al resto dell’umanità. Uomini che gli infrarossi trasformano in spettri, con tutti i significati che ne derivano: gli spettri delle nostre paure, lo spettro delle diversità, gli spettri balcanici e, nel senso più ampio del termine, lo spettro in quanto scelta di possibilità». Informazioni e anteprima di alcune immagini su enricocarpegna.com (lds)

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