Nella politica sempre più autoreferenziale le parole smarriscono il loro specifico significato originario. Il caso più evidente è il temine «riforma» che, in alternativa a «rivoluzione», definiva conquiste democratiche e civili ottenute attraverso le vie istituzionali e senza rottura cruente (tanto che a sinistra ci si divideva su questa alternativa strategica); oggi trasformato in un passe-partout lessicale che promette non ben precisate mirabilie. Una sorta di placebo per un corpo sociale in stato di avanzata depressione e – dunque – alla ricerca di promesse consolatorie.

Sono decenni che questa tattica comunicativa si prende gioco degli elettori: dai milioni di posti lavoro mendaci del primo Berlusconi alle tecnicalità teatralizzate dei tecnici montiani. Intanto la falla nella chiglia di un Paese che aveva smarrito la rotta diventava ogni giorno più ampia.

Buon ultimo, dalla breve clausura monastica nell’abbazia di Sarteano, arriva il giovane premier Enrico Letta ad annunciarci una nuova stagione di riforme. E lo fa nella retorica dei «cento giorni» che dovrebbe far scattare il riferimento subliminale al più grande esperimento riformistico novecentesco: il New Deal rooseveltiano.

Con la piccola differenza che, quando Francis Delano Roosevelt annunciava il suo progetto, lo faceva specificando per chi e – soprattutto – contro chi era diretto; già nel suo discorso d’insediamento del 1933: «L’abbondanza è alle nostre porte, ma l’uso indiscriminato che ne è stato fatto indebolisce la possibilità stessa di rendersi conto dei beni. Questo è dovuto al fatto che i padroni dello scambio dei beni dell’umanità hanno fallito per la loro ottusità e incompetenza… Le attività dei pubblicani privi di scrupoli sono sotto accusa nel tribunale dell’opinione pubblica, respinte dai cuori e dalle menti degli uomini». Sostituite «pubblicani» con «masters of universe della finanza» e l’antica prolusione acquista una clamorosa attualità.

Il problema è che in questi ottant’anni la politica ha del tutto smarrito la sua spinta ideale, diventando a partire dall’era thatcheriano-reaganiana un puro puntello dei rapporti di forza dominanti. Pura conservazione e valvola di scarico della pentola in cui bollono la rabbia e la frustrazione dei ceti sconfitti.

Sicché anche il programma riformistico dell’esecutivo Letta-Alfano rientra nello schema consolidato dell’indeterminatezza utilizzata alla stregua di una valigia dei trucchi da illusionista. Ad esempio il premier ci assicura che il primo intervento colpirà la piaga cronicizzata della disoccupazione giovanile. Ma non dice quali interessi contrari intende penalizzare. Difatti già si intuisce che la ricetta sarà quella di dare assoluta mano libera al sistema d’impresa, irrorato per giunta con qualche erogazione a pioggia, nella speranza che in cambio realizzi un po’ di assunzioni, purchessia.
Invece, se si volesse ragionare in termini riformistici originari, il tema sarebbe totalmente diverso: come avviare una profonda trasformazione di un tessuto produttivo che ha perso la propria capacità competitiva e ormai vivacchia ai margini dei mercati, offrendo in larga misura prodotti (beni per la casa e la persona) invecchiati e facilmente copiabili dai Paesi di nuova industrializzazione.

Nel primo caso la risposta segue il sentiero dell’abbassamento ulteriore dei livelli di tutela dei diritti del lavoro e dei sussidi, nell’altro si prefigurerebbe una declinazione in modalità innovative di quella politica industriale di cui si è smesso di parlare da decenni (ma che è la forza dell’economia reale tedesca e la pratica verso cui sta tendendo Obama, nel difficile ruolo di curatore fallimentare dei pasticci combinati dai suoi predecessori). In altri termini, se la parola «riforma» avesse ancora un senso le sue politiche del lavoro dovrebbero avvicinarci agli standard sociali dei Paesi più avanzati, non alle condizioni di sfruttamento tendente al servile da Far East. Almeno in una democrazia presa sul serio.