Stuoli di persone invadono le strade delle città napoletane il giorno dell’Epifania, i loro canti riecheggiano nelle strettoie cittadine. Sono i fujenti, o battenti, che fanno le questue per la Madonna dell’Arco, al loro richiamo i credenti rispondono offrendo soldi anche lanciandoli dai balconi o dalle finestre delle case. Le donazioni accumulate serviranno per le uniformi dei fujenti, per i toselli (carri, chiamati anche barche, addobati per la processione verso il santuario che ha luogo il Lunedì in Albis), per gli stendardi dell’associazione di appartenenza e, nella pura tradizione cattolica, per le opere di carità per i poveri o per le famiglie che si trovano in difficoltà economica. Così ogni domenica l’invasione si ripete ininterrottamente fino al giorno di Pasquetta, quando tutte le associazioni cattoliche operaie (ACO) della Madonna dell’Arco confluiranno verso un’unica meta: il monastero di Santa Anastasia dove è custodita l’effigie della Madonna.
È un percorso lungo, di attesa e di preparazione. Le associazioni curano in maniera maniacale i minimi dettagli e la costruzione del tosello porta via energie sia fisiche che economiche. L’associazionismo cattolico fa parte della vita quotidiana, ci si incontra tutti i giorni della settimana e spesso anche di sera. Si fa aggregazione, si fa gruppo perché si condivide non solo il culto mariano ma un modus vivendi che ha radici molto antiche. Le origini della Madonna dell’Arco si ramificano fino al culto greco di Demetra, a quello egizio di Iside e a quello primordiale della Grande Madre. L’eccezionalità della cultura partenopea è in questa duplicità insita nel paganesimo, un paganesimo mai cancellato e mai rifiutato che fonde la tradizione cristiana a quella pagana e primitiva.
La storia della Madonna dell’Arco nasce intorno al 1450, proprio un lunedì di Pasqua. La leggenda narra di un giovane, Aurelio Galdi, che, intento a giocare a pallamaglio con altri coetanei, sbagliando il bersaglio, colpì un albero di tiglio e perse la partita. Accecato dalla rabbia Aurelio scagliò bestemmiando la palla contro l’icona della Madonna col bambino dipinta su un muro. Secondo le ricostruzioni, la guancia dell’icona sacra iniziò a sanguinare proprio nel punto in cui era stata colpita dalla palla. Il miracolo del volto di Maria portò a poco a poco migliaia di fedeli a pellegrinare verso l’edicola votiva con doni, preghiere e richieste di miracoli, da allora il rito si ripete sempre più affollato ogni anno.
I fujenti hanno in comune un ex-voto, per se stessi o per i proprio cari, un legame che li unisce per tutta la vita alla Madonna dell’Arco, perché il miracolo è anche nella condivisione di valori, dello stile di vita, a prescindere se si è ricevuta la grazia. Come il professor Ennio Aloja, esperto del culto di San Gennaro e della Madonna, puntualizza: “Il pellegrinaggio alla Madonna dell’Arco è catartico, si vedono paraplegici e invalidi che, secondo il sociologo Federico d’Agostino, rappresentano l’icona della sofferenza, che vanno a chiedere la grazia non solo per il miracolo della guarigione, ma per ritrovare quella serenità interiore nella visione della Madonna. I pellegrini si abbandonano al pianto e a manifestazioni che in molti chiamano isteriche. I nostri fratelli fujenti insegnano una sorta di evangelizzazione. Il loro pregare con il corpo è un misticismo totalizzante: per ore il loro fisico esprime quello che oralmente non riescono ad esternare anche per il basso livello d’istruzione, però rappresentano una grande cultura, una cultura millenaria popolare. Bisogna accostarsi, bisogna andare proprio il Lunedì in Albis a vedere con i propri occhi questa sofferenza, questa richiesta di grazia, che si traduce in un miracolo della comunitas”.
L’associazione di Via IV Novembre ad Ercolano, come le altre distribuite sul tutto il territorio vesuviano, inizia la costruzione del tosello, o barca, dal mese di gennaio, nello stabilimento alle pendici del Vesuvio di Raffaele Veneruso, membro dell’associazione. Ogni anno viene scelto un concetto al quale ispirarsi: la Misericordia, la Fratellanza, la Pace … Qui ciò che conta è lo stare insieme, aiutarsi a vicenda, anche con le altre associazioni che usano lo stesso capannone. Nonostante non ci siano diatribe né rancori, secondo quanto asseriscono i presidenti delle associazioni, la curia è stata costretta ad inibire ogni tipo di gara tra le paranze (il termine paranza è mutuato dal mondo dei pescatori e rappresenta una piccola comunità di devoti della Madonna dell’Arco) scatenate dalla competizione per il tosello più grande e più bello.
Il Lunedì in Albis tutte le ACO si riversano nelle strade delle città napoletane. C’è il giro mattutino per rendere omaggio alle edicole votive più significative ed ai luoghi simbolo del proprio paese. La processione è seguita e sentita da molti ma non mancano critiche da una parte della popolazione che è scettica sulla sincerità delle ACO, si sospetta un tornaconto personale e non un benificio per l’intera comunità.
Lo sforzo per arrivare a Santa Anastasia è tremendo, i fujenti portano gli stendardi e il pesante tosello anche per decine di chilometri. Molti battenti compiono ancora il pellegrinaggio scalzi cantando una litania di sofferenza. Lo stress psico-fisico è intenso, molte persone si lasciano andare in lunghi pianti già durante il percorso, il tutto combinato ad una certa estasi-emozione per l’attesa di arrivare al monastero. Le paranze si accodano una dietro l’altra verso l’unica strada che porta al santuario. I toselli vengono portati a spalla, durante il percorso i fujenti devono fermarsi spesso per riposare per il lungo ed estenuante sforzo fisico; la barca è circondata da tutti i membri dell’ACO di appartenenza e non importa se fa caldo, freddo, piova o nevichi, il pellegrinaggio deve andare avanti per compiere quel “miracolo della comunitas” di cui parlava Aloja. I fujenti hanno un’uniforme bianca con un drappo azzurro (“… che simboleggiano i colori della Vergine Maria”, Wikipedia), sono tutti vestiti uguali, accodati, dopo il lungo cammino, a tutti i carri che a migliaia si trovano in fila sulla strada del santuario. Qui l’attesa può durare anche più di 12 ore, nel frattempo si sta insieme, si scherza, si parla, si piange, si balla e si ondeggia con tutta la barca per osannare Maria.
Il pellegrinaggio si conclude con l’entrata nel santuario, un percorso in cui la barca, per ovvi motivi d’ingombro, viene lasciata fuori. All’entrata molti dei fujenti si lasciano andare ad un pianto liberatorio pieno di gioia ma anche di dolore profondo e sincero; diversi camminano inginocchiati o strisciano con tutto il corpo verso l’altare, alcuni vengono presi da convulsioni e crisi di nervi e il personale della croce rossa interviene per calmare la persona. La commozione si protae anche fuori l’uscita posteriore del monastero: corpi di donne e uomini che si consolano a vicenda in abbracci e pianti estanuanti.
Ogni fujente ha la sua storia, il suo percorso, a volte ereditato, a volte scelto in prima persona, ma il credo e la convinzione sono profondi e rimangono immutati per tutta una vita. La fede verso la Madonna dell’Arco è sincera, mistica, personale che assorbe completamente l’individuo e che spiega il legame atavico del tessuto partenopeo con la religione. San Gennaro è il patrono di Napoli, ma quello che spicca maggiormente sono le cappelle e le edicole votive alla Madonna che si trovano in ogni angolo della città e della provincia: nei garage, nei vicoli, nei negozi, negli ingressi dei bassi l’immagine della Madonna riecheggia ovunque. La fede è talmente profonda che diventa trasversale: il ricco e il povero, l’operaio e il commerciante, il panettiere e il pescivendolo, il giudice e l’avvocato … e persino il camorrista. Già, come afferma Aloja, esiste “… un dualismo che è presente nei camorristi e nella malavita, cioè essi da una parte si dicono padroni della vita degli altri, ma dall’altra però sono come impotenti. Nei covi come a Casal di Principe: abbiamo trovato testi, vangeli, quadri di Gesù … evidentemente c’è qualche cosa, qualche reminiscienza della loro prima comunione. C’è un dualismo per me difficilmente spiegabile che coesiste soprattutto nei capi camorristi come per il famoso Professore di Ottaviano (il boss Raffaele Cutolo), O’ professore vesuviano, che da piccolo era catechista, la sua cultura, la sua istruzione superiore rispetto al resto era proprio quella religiosa”.
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Don Luigi Merola, uno dei pochi preti che si trovano in prima linea nel napoletano e che gestisce una fondazione, A Voce d’è Creature, per il recupero dei figli degli affiliati alla camorra nella casa dell’ex boss Contini-Brancaccio nel quartiere Arenaccia, afferma un’amara verità: “Sia lo stato sia la camorra hanno interesse a mantenere un livello culturale basso nel territorio. Quando un cittadino, un bambino diventato adulto, adolescente, giovane, comincia a capire quali sono i suoi diritti, perché va a scuola, perché la frequenta, perché studia, incomincia ad essere un problema per lo stato, perché incomincia a fare manifestazioni, inizia a chiedere allo stato quello che è il diritto di un cittadino. Più c’è ignoranza nel quartiere e meglio è per lo stato, così come è per la camorra perché non essendo i ragazzi formati non potranno mai ribellarsi al boss di turno, saranno sempre sottomessi, saranno sfruttati. Si dice che la camorra dà lavoro, non è vero, la camorra sfrutta la manodopera di questi ragazzi finché sono utili, poi quando non sono più utili ci sono le morti bianche: questi ragazzi scompaiono, spesso vengono sciolti nell’acido”.
Bruno De Stefano, giornalista e scrittore di libri sulla camorra, punta il dito direttamente contro la Chiesa: “Il camorrista si sente fedele a pieno titolo nonostante l’attività criminale, è legittimato da un comportamento che la Chiesa storicamente ha avuto, cioè quello della tolleranza. La Chiesa che è, diciamo, una grande agenzia educativa, non ha mai detto con chiarezza in maniera forte che i camorristi sono fuori da tutto, si è guardato di più al peccato che al peccatore. Questa forma di tolleranza ha praticamente fatto si che il camorrista possa tranquillamente dichiararsi cristiano senza incappare in una sorta di scomunica da parte della Chiesa.

Don Merola prosegue: “I sacerdoti sono come i comandanti delle stazioni dei carabinieri, conoscono tutti e sanno tante cose, dunque il sacerdote può intervenire, non può dire “io non lo so”, questo lo può dire il magistrato, perché la PG (Polizia Giudiziaria) non ha comunicato determinate cose su un delinquente, dunque il magistrato non può venire a sapere perché la PG non ha riferito. Però un prete che sa tutto, non può dire “io non so”
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“È vero che il culto della Madonna dell’Arco, o i vari Gigli che ci sono nel nostro territorio utilizzano questi ragazzi che spesso non hanno una cultura. È vero anche perché con la Voce d’è Creature facemmo un’indagine tre anni fa e scoprimmo che il titolo di studio più alto di un affiliato alla camorra che partecipa a queste espressioni devozionali sul nostro territorio è la seconda media. Dunque dove c’è mancanza di cultura c’è devianza, c’è mafia, c’è camorra e questo lo dobbiamo gridare ai nostri politici che dovrebbero investire di più nelle scuole, nelle università ma anche in centri culturali dove impartire corsi di fotografia, di cinematografia, di giornalismo … corsi dove i ragazzi imparano a scrivere e a comunicare. Purtroppo negli ultimi anni proprio lo stato ha tagliato i fondi a chi voleva aprire una Tv, un giornale, a chi voleva fare un circolo culturale”.
Don Merola sprona i suoi colleghi a essere più rigidi nei confronti dei fenomeni mafiosi: “La Chiesa ha benedetto tante volte queste realtà camorristiche, penso per esempio a Totò Riina che si è sposato durante la sua latitanza. Per potersi sposare c’è voluto un prete, il prete dichiarò che “Mi aveva chiesto un sacramento” e non ha potuto rifiutare, ma ricordati che te lo ha chiesto un mafioso, un camorrista. Dunque anche il lavoro all’interno della Chiesa deve continuare per evitare che dei sacerdoti isolati, invece di maledire il male che le organizzazioni criminali commettono, rishiano spesso di benedirle. Non malidiciamo le persone, ma la camorra è da maledire perché il sistema camorristico è peccato, perché ha tolto la speranza al territorio. Finché il camorrista si vuole riscattare, vuole cambiare vita, avrà sempre una porta aperta, ma il camorrista che vuole cambiare vita nascondendo tutti i soldi che ha ricavato e tutte le malefatte che ha fatto solo perché vuole sfuggire dalla giustizia umana, allora significa che il camorrista deve marcire finché avrà vita in galera, finché non si pentirà amaramente davanti al Signore”.

Sicuramente la camorra usa il radicamento della Chiesa per allargare il proprio potere attraverso i riti religiosi che hanno un vasto seguito in tutta la Campania e nel Meridione in generale. Sfruttando la penetrazione della Chiesa nella società, e soprattutto la sua distribuzione, la camorra si sovrappone alla struttura religiosa usandola per i propri fini. De Stefano aggiunge: “Con i riti religiosi i camorristi ci sono dentro con tutti e due i piedi, se non è un modo per ricliclare il denaro è un modo per riciclare la propria credibilità. Il riciclaggio è dal punto di vista dell’immagine”. Ma non è solo l’immagine, il camorrista agendo in prima persona, o tramite il suo clan, crea un legame profondo con la popolazione, diventa un modo per controllare meglio il territorio proprio perché diventa uno del popolo. Il boss non è più un corpo estraneo, ma un membro della comunità, che elargisce denaro, favori e … carità”.

È proprio sugli affiliati che bisogna agire, far leva sulla cultura, sulla creazione di posti di lavoro e di spazi comuni dove il cittadino e la comunità civile vengono messi in condizione di essere i primi attori del rinnovamento politico-culturale. Sgominare un clan porta solamente ad un vuoto che verrà accupato da un altro clan, è in quel vuoto che lo stato dovrebbe entrare in tackle, per riappropriarsi degli spazi pubblici e restituirli alla comunità, perché come Don Merola afferma: “Il boss vuole che il figlio segua le sue orme, ma non sempre lo voglio gli affiliati. Quasi il 90% della camorra è fatto di affiliati, noi abbiamo 103 clan attivi tra Napoli e provincia, solo i 103 capi vogliono che il proprio figlio segua le loro orme … noi invece abbiamo 130.000 affiliati alla criminalità organizzata e c’è una buona percentuale di questi che non vuole che il proprio figlio faccia quello che ha fatto lui. Non proprio tutti hanno detto no alla camorra, ma i loro figli stanno qui (alla Voce d’è Creature), circa 200 ragazzi”. Don Merola aggiunge che su 100 boss di camorra con i quali ha avuto rapporti in cella, solo uno è veramente riuscito a redimersi, mentre gli altri hanno solamente cercato la sua intercessione per ottenere un trattamento più morbido dalla giustizia.