La protesta che nel 2013 cercò d’impedire che Gezi Park fosse spazzato via, poi ribellione di massa contro il regime islamo-liberista, fu un fulmine a ciel sereno. Fino ad allora, sottolinea Giovanna Loccatelli ne L’oro della Turchia (Rosenberg & Sellier, pp. 192, euro 14), l’ostilità nei confronti di Erdogan riguardava soprattutto l’autoritarismo e il tentativo di islamizzazione. Anche in Europa, d’altronde, la diffusa contrarietà nei confronti del conservatorismo islamista dell’Akp – con la tigre anatolica candidata all’ingresso nell’Ue – veniva ampiamente bilanciata dall’ammirazione per l’imponente processo di «modernizzazione». Le innumerevoli occasioni di business consigliavano di chiudere più di un occhio di fronte alla violazione sistematica dei diritti umani e alla selvaggia deregulation in campo edilizio e ambientale.

ANCHE A BUONA PARTE dei «turchi bianchi» – l’élite urbana laicista e cosmopolita frutto delle riforme di Mustafa Kemal – preoccupati di difendere i simboli repubblicani e il proprio stile di vita, sfuggiva la pericolosità della tenaglia erdoganiana basata, semplificando, su Islam e cemento. Da subito l’aspirante sultano ha promosso un massiccio utilizzo della speculazione edilizia e delle opere pubbliche per alimentare un nuovo blocco sociale – costituito da milioni di turchi anatolici che hanno rapidamente ingrossato Istanbul e le città dell’ovest – attraverso estese pratiche clientelari e foraggiare, con ingenti investimenti pubblici ed esteri, un fedele blocco di potere politico-imprenditoriale.

IL LIBRO DI LOCCATELLI ha il pregio di descrivere in termini critici la parabola della vecchia élite occidentalista, superando una certa visione celebrativa tipica dello sguardo europeo: piegati dalle purghe dell’apparato pubblico e dei media, dagli arresti e dalla censura, o attirati dal miracolo economico e dalla svolta nazionalista seguita al fallito golpe del 2016, molti turchi bianchi sono stati assimilati.
Nello skyline di Istanbul i grattacieli sovrastano ormai i minareti, le città sono state stravolte dal moltiplicarsi dei centri commerciali e delle comunità residenziali chiuse e la gentrificazione dei quartieri popolari espelle poveri e minoranze; intanto sono cresciute una nuova classe media e una nuova élite costituite dai «turchi neri», per decenni tenuti ai margini della politica e della vita pubblica e discriminati dalla spocchiosa Turchia kemalista.

OCCUPY GEZI e poi il golpe estivo hanno così dovuto fare i conti con l’ampiezza e la solidità del consenso che Erdogan ha saputo costruire grazie a un potente mix di conservatorismo, integralismo religioso, turboliberismo, intervento statale e nazionalismo. Senza dimenticare – ricorda Alberto Negri nella postfazione – l’aggressivo e spregiudicato interventismo dal Medio Oriente ai Balcani, dalla Libia al Corno d’Africa, dalle repubbliche turcofone ex sovietiche all’Egeo.
Dal 2018 però, crisi e recessione minacciano di incrinare il potere di Erdogan. Allarme ha destato nel 2019 la vittoria delle opposizioni nazionaliste/laiciste ad Ankara e soprattutto a Istanbul. Qui, nonostante i condizionamenti e l’imposta ripetizione del voto, si è affermato il repubblicano Ekrem Imamoglu, anche in alcuni quartieri tradizionalmente feudo della destra conservatrice/religiosa.

UN SEGNO, forse, che le crescenti diseguaglianze create da decenni di ingegneria urbana e sociale, l’allargamento della forbice tra ricchi e poveri e la crescente disumanizzazione della città hanno reso l’oro della Turchia meno luccicante.
Erdogan prova a rilanciare, trasformando Ayasofya in moschea, accelerando la realizzazione del faraonico Canale di Istanbul e aizzando l’Azerbaijan contro l’Armenia. Basterà?