Il nuovo film di Darren Aronofsky è confezionato in modo da ammettere due letture. In superfice si presenta come il dramma di una famiglia in un interno. Lui è uno scrittore che ha conosciuto il successo ma che non riesce più a produrre. L’attore Javier Bardem gli presta il sorriso sardonico e la mole possente che ad Hollywood è il segno tipico del personaggio del creativo diventato impotente (basti pensare a Sterling Hayden nel Lungo addio di Altman).

Lei è giovane, bella, rotonda. Il huis clos nel quale si svolge il menage è una grande villa in legno a pianta ottagonale, immersa in un paesaggio verde ed incontaminato. Tra i due c’è idillio ma anche una certa tensione. Lui passa troppo tempo dietro fogli che restano bianchi. Lei invece è piena di creatività. Prima ancora che Bardem impazzisca come Jack nell’Overlook Hotel, Aronofsky ha già cambiato film. Dal nulla, fa sorgere un uomo. È un medico e si trova lì per caso. Tossisce. È fragile. Sempre dal nulla, spunta anche una donna. È sfrontata e arrogante. I due ospiti violano la regola sacra della casa, penetrano nello studio di lui e toccano un oggetto proibito, che ovviamente si rompe. Per finire sopraggiungono due figli. Un Caino e un Abele che non tardano a fare quello che ci si aspetta da loro.

Mother! è, seconda lettura, una sorta di Cappella sistina in movimento, ricolma di allusioni al vecchio e al nuovo testamento che Aronofsky include in una visione tutta personale. Il personaggio principale, dal cui punto di vista il film, pure in tutte le sue erranze, non diverge mai, è quello della donna dello scrittore, la mother natura (Jennifer Lawrence). La casa è una sua creazione (è lei, apprendiamo quasi subito, che l’ha fatta risorgere dalle ceneri di un passato incendio). Ma la mother non si identifica mai completamente con il proprio creato. Sebbene la casa stessa, ovvero il creato, sia in un certo senso una donna (Aronofsky non esita a farla sanguinare ciclicamente).

Ora, in questo intrigo di simboli c’è una morale politica. L’uomo è la creatura di un dio frustrato ed egocentrico. È un essere superstizioso che ignora il senso e la bellezza del creato. Figlio di un impotente, a sua volta non sa far altro che distruggere. Potremmo chiamare questo pensiero un’ «ecologia» – se non fosse che il termine è anacronistico.
Il punto di vista di Aronofsky somiglia non tanto ai moderni difensori della natura, quanto piuttosto a quegli intellettuali russi che, nostalgici del modo di vita arcadico dell’ancien regime, si scagliano contro i materialismi frutto della rivoluzione dei Lumi. Lo sguardo che questo autore porta con sé è in effetti reazionario. Salta agli occhi nella sua rappresentazione del popolo: una massa formicolante di straccioni senza morale, sempre pronti a saccheggiare e a violentare ogni cosa. Una visione tipicamente ottocentesca delle «classi pericolose».

Ora, non si può dire che un autore, perché reazionario, non valga la pena di essere letto o visto. D’altro canto, non basta sfarfallonare con la spiritualità per mettersi al livello di Dostoevski o di Sokurov. Il caso di Aronofsky è tutt’altro che semplice. Il suo The Wrestler (2008) è un grande film. E anche Il cigno nero, pure con alcune cadute di stile, toccava qualcosa di vero. E nel vero c’era anche del bello: il migliore Aronofsky è quello che su ogni superfice, e in specie sul corpo umano, immagina una pagina o una tavolozza.

Mother! Non fa totalmente eccezione. Ma il film nel suo complesso è a tal punto farcito di sbruffonate da diventare indigesto. Bisogna inoltre amare un sottogenere del teatro filmato che è il dramma psicologico. Spesso infarcito di attori hollywoodiani in fine carriera (qui ce n’è tutta una panoplia), permette a questi di esercitarsi a esasperare lo spettatore con l’esercizio fine a se stesso di scene ora imbarazzanti, ora fastidiose, ora semplicemente insopportabili.