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La pandemia mette a nudo il capitalismo amorale

La pandemia mette a nudo il capitalismo amorale

Economia e morale Dobbiamo risalire alle strutture profonde dei sistemi di produzione e dei ruoli produttivi, vale a dire dei nostri doveri, dei nostri poteri, del nostro prestigio sociale

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 31 gennaio 2021

La pandemia globale da Covid-19 sta facendo esplodere il mondo moderno: la carenza di lavoro, la trasformazione ecologica, i migranti, le biotecnologie, l’intelligenza artificiale e lo sviluppo incontrollato della scienza, l’istruzione, i beni pubblici, la cultura. I

l Forum di Davos, che già l’anno scorso aveva inneggiato al «mai più profitti senza etica», ora reclama «migliori economie e società». Da più parti avanza la richiesta di discutere la legittimità del capitalismo anche sotto il profilo strettamente morale.

Mentre alcuni studiosi si attardano nella celebrazione del saggio in cui cinquant’anni fa Milton Friedman sosteneva che il capitalismo non ha alcuna responsabilità sociale tranne che aumentare i profitti (the business of business is business), maturano interrogativi che vanno dal «fondamento etico lacerato» del capitalismo di Paul Collier all’esigenza di liberazione dal «fondamentalismo di mercato» affidata a un «capitalismo progressista» di Joseph Stiglitz, all’esplicita volontà di ricostruzione delle «basi normative» del capitalismo di due filosofe come Nancy Fraser e Rahel Jaeggi, le quali sostengono che nessuna pratica economica è neutrale, e pertanto scissa dalla normatività, e il capitalismo non va visto come semplice sistema economico ma come «ordine sociale istituzionalizzato».

Così, alla domanda «ha senso interrogarsi sulla moralità del capitalismo?», non solo si può rispondere sì ma si può sostenere che ragionare su di essa è la cosa più importante oggi da fare, in assenza della quale non potrà essere generato il rovesciamento di paradigma in direzione dell’ideazione di «un nuovo modello di sviluppo» di cui c’è bisogno.

È da segnalare che Branco Milanovic – benché studioso insigne di una questione con forti connotati morali come la diseguaglianza, vista però come problema soprattutto redistributivo – non la pensa così. Egli considera inevitabile l’amoralità del capitalismo e l’«esternalizzazione» della moralità – con cui si trasferiscono alla coercizione esterna delle regole e delle leggi i meccanismi di autocontrollo interni degli individui, ritenuti ormai morti o esautorati -, nella convinzione che «il comportamento amorale è necessario per la sopravvivenza in un mondo in cui tutti cercano di procurarsi quanto più denaro possibile».

Non a caso Milanovic condivide l’opinione settecentesca di Mandeville – contrastata da Adam Smith – che il successo dipenda dallo stimolare negli individui il comportamento più avido e egoistico, accetta l’equiparazione delle preferenze non a valori scrutinabili ma a gusti insindacabili estendendo anche all’economia il detto comune «de gustibus non est disputandum», condanna la critica di Karl Polanyi alla mercificazione estesa e indiscriminata, perché essa sarebbe desiderata e voluta liberamente dagli individui, non «uno sviluppo innaturale che presagisce la crisi del capitalismo».

Così però Milanovic accetta in pieno i postulati del vecchio paradigma spinti all’estremo dal neoliberismo, la sua pretesa di neutralità e di scissione tra etica ed economia. Una pretesa contestata da un premio Nobel come Amartya Sen fin dai suoi esordi di studioso, con la critica dell’ipostatizzazione dell’agente economico come individuo isolato, esclusivamente autointeressato, ossessivamente massimizzante, perfettamente razionale sul piano strumentale, un agente che in sue celebri definizioni Sen bollò già negli anni Settanta del Novecento come «sciocco razionale» e «idiota sociale», proprio perché ha come unico problema il mettere insieme dati mezzi con dati fini, senza riflettere né sugli uni né sugli altri e nell’ignoranza più totale della propria intrinseca socievolezza e interdipendenza.

Forse, dunque, a fare la differenza c’è qualcosa di molto profondo: se il carattere accentuatamente etico-politico dei sommovimenti in corso chiama in causa in modo non banale la dimensione dei valori, ciò da una parte dà alla denunzia dei guasti sociali e politici un forte significato morale, dall’altra dà alla moralità un elevato contenuto critico, configurando l’agire morale tout court come «un agire critico».

Diventa lampante che non possiamo più restare alla superficie dei sommovimenti in atto, considerando la giustizia e l’eguaglianza solo come materia di risarcimento e di redistribuzione, ma dobbiamo risalire alla strutture profonde che articolano i nostri sistemi di produzione e i nostri ruoli produttivi, vale a dire i nostri doveri, i nostri poteri, il nostro prestigio sociale.

In questo modo balza in primo piano la questione della «piena e buona occupazione», elusa fino ad oggi anche da governi di centrosinistra, mentre è estremamente significativo che durante la campagna elettorale che ha portato al successo di Joe Biden nelle presidenziali per gli Stati Uniti molti esponenti democratici americani si siano impegnati nell’elaborazione, la discussione, la proposta di programmi di «lavoro garantito».

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