È opinione ormai diffusa e più o meno comune che le radici della pandemia dentro cui siamo immersi vadano cercate anche nei nostri modelli di sviluppo: nell’acquisita consapevolezza, evidentemente, che si tratta di modelli sbagliati, miopi, bulimici. Per troppo tempo abbiamo pensato di poter dominare tutto, ci siamo abituati a credere di poter godere della terra che abitiamo a nostro esclusivo vantaggio.

ANCHE IL DIRITTO avrebbe fatto la sua parte. O meglio: non l’avrebbe fatta, o l’avrebbe fatta male. È la tesi sostenuta ad esempio da Carla Benedetti, la quale non è una giurista ma coglie nel segno quando afferma, nel suo La letteratura ci salverà dall’estinzione (Einaudi), che al diritto spetterebbe di tutelare non solo i padri ma anche i figli, di pensare non solo ai viventi ma anche al futuro e di guardare quindi non solo all’oggi ma anche al domani, quale vorremmo che fosse nell’interesse di altri da noi.

In effetti ciò che può essere imputato al diritto, anche al di là di qualunque riferimento ai temi dell’ecologia e della sostenibilità ambientale, è qualcosa di molto grave: è la mancanza di un respiro che lo trascenda e lo superi rispetto alla sua pura contingenza, ai suoi dispositivi formali, al suo elemento tecnico. Da questo punto di vista il discorso riguarda tanto il diritto quanto la politica: troppo spesso, negli ultimi anni, l’uno e l’altra non hanno saputo svolgere quasi altra funzione se non quella di amministrare l’esistente, restringendo i propri orizzonti di senso e rinunciando così non solo a qualunque utopia, ma anche a qualunque funzione trasformatrice della realtà data.

ADESSO DUE LIBRI appena pubblicati contengono alcuni semi di un possibile riscatto. Il primo è di Luigi Ferrajoli, Perché una Costituzione della Terra? (Giappichelli); il secondo, Il senso della vita (Einaudi), di Vincenzo Paglia e Luigi Manconi in dialogo fra loro. Quello che propone Ferrajoli è un vero e proprio «salto di civiltà nel diritto, nella politica e nell’economia», consistente in un «allargamento, a livello planetario, del paradigma del costituzionalismo rigido quale è stato adottato dalle odierne democrazie costituzionali all’indomani della liberazione dai nazifascismi». Da soli, osserva Ferrajoli, gli Stati nazionali non potranno mai fronteggiare quelle violazioni di diritti e beni fondamentali, definibili come «crimini di sistema», cui il mondo attuale è continuamente esposto; né affronteranno mai «i problemi della disuguaglianza globale, della fame e della sete nel mondo e delle malattie non curate di centinaia di milioni di persone».

Ed è per questo che sarebbe necessario progettare un costituzionalismo dei diritti e dei beni fondamentali (a cominciare da una «fiscalità mondiale» e da una «giurisdizione globale di costituzionalità»): perché altrimenti «sono in pericolo non soltanto le nostre democrazie, ma anche la pace e la vivibilità del pianeta».

DA PARTE LORO, Manconi e Paglia riflettono su molte cose, da quelle di più immediata urgenza, sprofondate nella vita di tutti i giorni, a quelle che chiamano «cose ultime», riguardanti appunto il senso della vita e la vita oltre la vita. E quando parlano del tema della «cittadinanza universale», in particolare, entrambi dichiarano di essere grandi fautori della «giustizia riparativa»: e cioè di quel modello di giustizia che non si accontenta delle sentenze dei tribunali, della verticalità delle decisioni, della chiusura di colpe e ragioni in una formula di condanna o di assoluzione.

La giustizia riparativa «non si limita a sanzionare la lesione inferta», ricorda Manconi, «ma opera per curarla», e non fissa autori e vittime di reati una volta per tutte in un gesto compiuto o subìto bensì aspira a molto di più: alla costruzione di un nuovo equilibrio, nell’ambizione che la giustizia possa tradursi anche in un incontro – fra due volti che si guardino, fra due storie che chiedono reciprocamente di essere raccontate e raccolte, ascoltate.

L’IDEA DEL DIRITTO che sia Ferrajoli sia Manconi e Paglia presuppongono e promuovono, ciascuno a modo proprio, è esattamente quella dalla cui mancanza il diritto stesso vede provenire le accuse nei suoi confronti. Vale a dire l’idea secondo cui il diritto svilisce i suoi fini quando si limita ad assecondare il fluire degli eventi senza immaginare di poter a sua volta cercare di indirizzarlo; se non che il diritto debba anche saper suscitare empatia, smuovere sentimenti.

Ecco, i due libri hanno questo in comune: un’uguale fiducia nella forza immaginativa e creatrice del diritto. E si tratta proprio di quel respiro più largo di cui la pandemia ci ha finalmente dimostrato il bisogno, perché non può esistere creazione che per sua natura non si proietti sul futuro. Che non chieda di abbandonare la logica egoistica dell’io, e dell’ora e del qui, a favore di una logica inclusiva, altruistica, del noi e del domani.