Le elezioni presidenziali di domani in Corea del Sud arrivano in un momento molto delicato per l’intera regione e per il paese e potrebbero costituire una inimmaginabile, almeno fino a qualche settimana fa, soluzione per la «crisi coreana».

Da settimane la tensione nell’area è alle stelle per le minacce costanti tra Pyongyang e Washington, con Seul senza una guida e impegnata in una inaspettata e movimentata campagna elettorale.

Eppure le dinamiche legate al rischio di un test nucleare, il sesto, da parte della Corea del Nord e il blocco politico sud coreano si stagliano su uno scenario asiatico decisamente diverso da quello che si poteva osservare durante la presidenza di Park Geun-hye. Lo scandalo che ha coinvolto la prima presidente donna del paese (legato a una intromissione negli affari di stato di un’amica della presidente e a un giro di tangenti e finanziamenti illeciti che ha finito per coinvolgere anche aziende fondamentali per l’economia sud coreana come la Samsung) è scoppiato a settembre del 2016. Park è stata destituita dal parlamento a dicembre e poi ufficialmente dalla Corte costituzionale a marzo di quest’anno: dalla fine dell’estate dello scorso anno a oggi tante cose sono cambiate. Innanzitutto è cambiata la stessa Corea del Sud: la destituzione della figlia dell’ex dittatore è arrivata al termine di proteste che hanno visto come principali protagonisti i giovani sud coreani, studenti e non solo, in quella che è passata alle cronache come «la rivoluzione delle candele», partita proprio dalle università.

Si tratta di una generazione che non ha vissuto né il conflitto con i vicini nord coreani, né la guerra fredda; come tutti i giovani delle società avanzate usano molto la rete (e Moon Jae-in, il candidato favorito, si è servito di social e internet per progettare le sue linee guida per un futuro governo), non vedono di buon occhio le imposizioni degli americani e partecipano alle recenti protesti contro il Thaad: sono loro i pacifisti più attivi al momento contro la guerra. Se – come dicono i sondaggi – andranno a votare in massa, il rappresentante del partito democratico Moon potrebbe arrivare davvero alla Casa blu. E in quel caso contribuirebbe, e non poco, a modificare anche l’architettura dello scacchiere asiatico.

Oltre alle novità interne sud coreane infatti, prima della destituzione ufficiale di Park, tutta l’area è stata riplasmata nelle alleanze e nei rapporti di forza. L’arrivo di Donald Trump e il suo primo gesto, l’affossamento del Tpp, ha dato il primo scossone. Tanto la Corea del Sud, quanto il Vietnam, fino a quel momento poco vicini alla Cina, si sono sentiti «traditi» da Washington e si sono rivolti a Pechino perché potesse proporre un’alternativa regionale in materia commerciale. Analogamente l’avvento al potere di Rodrigo Duterte nelle Filippine ha contribuito a sparigliare storiche alleanze e posture dei paesi asiatici. A parte il Giappone, quindi, tutto il continente è apparso meno refrattario a cercare contatti con la Cina, rispetto al periodo obamiano il cui «pivot» ruotava intorno all’accordo di libero scambio Tpp, che di fatto escludeva proprio i cinesi.

Pechino, nel frattempo, tramite l’intervento di Xi Jinping a Davos si è posta come alternativa all’isolazionismo americano, per guidare la futura economia globalizzata proponendo la propria ricetta: pace, in primo luogo, nessuna ingerenza negli affari interni degli stati, piattaforme in grado di sviluppare relazioni win-win all’interno di quella che Xi Jiping ha definito come «comunità di interessi». L’Asia naturalmente è vista da Pechino come un punto fermo della propria strategia: se Pechino vuole avere una nuova posizione a livello globale, deve sicuramente imporsi in casa propria. La crisi nord coreana ha messo a rischio questo disegno, ma la caduta di Park aveva già permesso di tratteggiare nuovi e insoliti scenari.

Il favorito alla corsa presidenziale, Moon Jae-in, è infatti un candidato che non dispiace a Pechino. Moon è stato un collaboratore e consigliere molto influente di Roh Moo-hyun, presidente dal 2003 al 2008, fautore della «sunshine policy» rispetto alla Corea del Nord (un approccio fatto di apertura al dialogo e alla cooperazione economica). Proprio Roh, suicida nel 2009 a seguito di accuse di corruzione, disse che non si sarebbe mai «inginocchiato di fronte agli Stati uniti».

Moon lo ha ribadito in un suo recente libro: «Dobbiamo potere dire no agli Usa». Ha contestato l’installazione del Thaad, il comportamento di Trump e sembra essere pronto a una nuova relazione – più aperta e «affidabile» – con la Cina (nonostante il recente boicottaggio a prodotti coreani applicato dai cinesi a seguito dell’installazione del Thhad). Se Moon dovesse vincere, per Pechino si potrebbero semplificare le manovre di «moderazione» dell’area.

Non a caso anche Pyongyang, che aveva definito una «prostituta» Park, non ha prodotto critiche feroci nei confronti di Moon (che potrebbe anche riaprire l’area economica di cooperazione con il Nord, ripristinando il distretto industriale di Kaesong).

In quel caso la Cina potrebbe contare su una Corea del Sud più ragionevole di quella che, senza un comando, è stata utilizzata da Trump tanto per l’installazione del Thaad, quanto per le esercitazioni navali. Pechino potrebbe fare affidamento su Seul in futuro e nell’immediato per offrire qualcosa in cambio a Kim Jong-un, a fronte di un disimpegno nucleare da parte di Pyongyang.