Izmir, Smirne per noi, la città divenuta greca dopo la prima guerra mondiale persa dall’impero ottomano, poi ripresa dai turchi con il conseguente grande esodo di profughi greci verso la madrepatria. Un luogo pieno di storia, di drammi e di tragedie. Oggi una città moderna, con radici però ancora salde nella tradizione. Lì incontriamo la famiglia di Nurcan, da poco vedova e incapace di reagire. Vive sul divano, anche quando pulisce verdura o stira, mentre la tv martella, e passa il tempo autocommiserandosi .

Ha tre figli. La trentenne Feride, impiegata. Su di lei vengono riversate tutte le inadeguatezze di mamma. Deve farsi carico di ogni problema, piccolo o grande. Poi c’è Ilker, diciassettenne, vorrebbe guidare lui la famiglia in quanto maschio, ma è un ragazzino ancora inadeguato. Infine Ozge, la più piccola e indifesa, non urla, non litiga, ma è frustrata nel non ricevere la minima attenzione. Il film d’esordio di Deniz Akçay, Koksuz (titolo internazionale Nessuno a casa) presentato alle Giornate degli autori, si è rivelato una piccola sorpresa divenuta alla fine un autentico gioiellino.

Sospeso tra un presente dove telefonini e computer imperano e un passato fatto di tradizioni, di nonne che dispensano pillole che non hanno più nulla di saggio, basate su stereotipi da società patriarcale e maschilista. I figli adolescenti hanno il poster dei Nirvana, fumano hashish, ma rivendicano il ruolo di maschio quasi come diritto divino.

Sono equilibri famigliari saltati, tutto è andato alla deriva. Per questo a Feride basta la gentilezza di un collega per accettare una proposta di matrimonio, osteggiata naturalmente da mamma. Sempre acciaccata, sempre pronta a chiedere qualcosa che lei non è in grado di fare, e non tanto perché devastata dalla perdita, ma perché ormai assuefatta a un sistema in cui l’uomo si occupava di tutto, lei non sa neppure prendere l’autobus per assistere al saggio della figlia più piccola. Lontani dal folklore, il racconto scivola sulla disgregazione, su quattro solitudini che non riescono più a trovare momenti di solidarietà, solo doveri o scontri.
Qui il ruolo materno assume forme distorte, al limite dell’insopportabilità, mentre il ragazzino non trova di meglio che inanellare una storia di sesso con la mamma dell’amico che lo ospita dopo la fuga da casa. Un modo per riaffermare come sia lui a dover sostituire babbo, ma solo la vecchia nonna lo sostiene in una logica ormai dissolta. Il divano su cui ormai vive Nurcan forse non è più l’ottomana di un tempo, ma quello spazio accogliente sembra in grado di impedire qualsiasi confronto con la realtà, quello è il suo piccolo angolo nel nido, quello davanti al quale Feride trova il coraggio di gettare i piatti a terra.