Oggi (?) si dovrebbero dipanare due capitoli importanti: l’insediamento della commissione di vigilanza con relativo organigramma, nonché l’elezione dei quattro componenti parlamentari del consiglio di amministrazione della Rai.

Domani si esprimeranno lavoratrici e lavoratori dell’azienda per indicare il loro rappresentante e, infine, sarà la volta del ministero dell’economia con ulteriori due nomi.

L’assemblea dei soci del prossimo 23 luglio dovrà adempiere all’indicazione dell’amministratore delegato.

Quest’ultima figura ha nelle sue mani gran parte del potere. E persino il ruolo presidenziale potrebbe scaturire dalle indicazioni dell’esecutivo, perché forse il/la predestinato/a non è detto che rientri tra gli oltre duecentotrenta curricula inviati. In tutto questo, per lo meno si rispetti la presenza femminile.

Ma è proprio il sistema di governo, imperniato su un direttore generale di emanazione ministeriale cui sono attribuite funzioni «imperiali», a mettere in luce un verosimile vizio di anticostituzionalità della legge n. 220 del 2015, forsennatamente voluta dall’allora maggioranza di Matteo Renzi. Legge sbagliata e persino suicida per gli zelanti proponenti, convinti forse di rimanere a palazzo Chigi per l’eternità.

La ruota gira e ora il partito democratico rischia di sedersi in tribuna. Così la prossima scena vedrà un festoso corteo gialloverde dopo i fallimentari patti del Nazareno.

Delle aporie della normativa si è parlato con seri argomenti nella conferenza stampa promossa ieri dalla federazione della stampa, dal sindacato dei giornalisti della Rai e dall’ordine professionale. E pure in una precedente iniziativa di AdpRai, Ucsi e InfoCivica.

In sintesi.

Serve una vera riforma, perché quella approvata per alzata di mano in terza lettura dal senato in prossimità del Natale del 2015 è un pasticcetto tragico.

Manca qualsiasi visione ed è un testo residuale, venuto dall’inerzia del vecchio mondo analogico. Non era scritto nel destino. Negli anni passati ogni ipotesi coraggiosa è finita in soffitta. L’elenco dei progetti di riforma boicottati è lungo ed è ormai patetico rifare l’elenco.

Neppure la legge Gasparri del 2004 era arrivata a tanto. Con l’ultima (contro)riforma si è varcato il confine scritto dalla giurisprudenza costituzionale in un quarantennio, secondo cui indirizzo e controllo sul servizio pubblico appartengono alle assemblee parlamentari (per la parte di competenza alle regioni) e non al governo. Che il pluralismo sia degenerato in lottizzazione è un problema serio, ma va pure sottolineato che alla sgradevole spartizione partitica si è sostituita una praticaccia equivalente sotto la regia di lobby e salotti.

Lo schema fondato su un capo assoluto scelto dall’alto è in contrasto con diversi articoli della Costituzione e favorisce la formazione di atteggiamenti insani. Non si può, a questo punto, escludere che parta una procedura volta a portare in giudizio la l.220.

La giornata di oggi, comunque vada, non va intesa come la conclusione, bensì come una parentesi amara.

Un atto dovuto, da rivedere presto con una riforma degna di questo nome, che stacchi la gestione della Rai dai diversi poteri attraverso una fondazione indipendente cui si affidi la scelta dei vertici. Meccanismo «duale» viene chiamato ed è già sperimentato: alla Bbc, ad esempio.

Un consiglio di transizione e un amministratore delegato vagliato da una rigorosa cross examination. Nella scorsa legislatura il Movimento 5Stelle poneva questioni simili. Le sinistre depositarono una bella proposta. E ora?