Presidenza della Repubblica, prosecuzione della legislatura, legge elettorale: fino a un paio di settimane fa erano questi gli elementi che, intrecciati, formavano un ingorgo politico di difficile risoluzione. Si è aggiunto un quarto elemento, che prevale su tutti e minaccia di trasformare l’ingorgo in diabolico labirinto: la pandemia. I dati del contagio parlano da soli ma non dicono tutto: la preoccupazione nei palazzi del potere è molto più alta di quanto non appaia, le previsioni oscillano tra il cupo e il nefasto.

Ieri il ministro Speranza lo ha detto quasi a chiare lettere: «Siamo dentro una sfida non ancora risolta e sarebbe un errore abbassare la guardia. È una partita ancora aperta e richiede il massimo impegno». Può sembrare un classico “al lupo!”, la sirena fatta suonare per spingere anche i più recalcitranti a vaccinarsi. Non è così. Governanti, parlamentari e amministratori sono davvero convinti che tra dicembre e gennaio l’Italia si troverà di nuovo in una situazione drammatica anche se nessuno può profetizzare quanto difficile.

La sola decisione praticamente già assunta dal governo è quella di rendere obbligatoria la terza vaccinazione per medici e personale sanitario, ma anche la limitazione della validità del Green Pass a 9 mesi arriverà a stretto giro, probabilmente previa discussione del Cts. I dati del ministero dicono che circa un settimo dei completamente vaccinati torna a essere esposto al virus dopo 6 mesi. Di qui la necessità di accorciare la validità del lasciapassare verde.

Sin qui non dovrebbero frapporsi ostacoli politici. Le difficoltà arriveranno quando, intorno al 20 dicembre, si tratterà di rinnovare lo stato d’emergenza e ancor di più quando, in gennaio, bisognerà varare un decreto che permetta di estendere l’emergenza oltre la fine di gennaio. La legge sulla protezione civile circoscrive a due anni e non oltre la possibilità di ricorrere allo stato d’emergenza. Cambiarla in gennaio sarà imperativo ma bisogna essere davvero molto ottimisti per sperare che Salvini, sulla soglia della sfida per la successione a Mattarella, accetti sia la proroga che la modifica della legge senza chiasso.

Sull’esito del confronto non ci sarebbero dubbi, ma un braccio di ferro renderebbe ancor più difficile trovare un’intesa sul nome del presidente. Il miraggio di Letta, quello di un ordinato tavolo dei leader di maggioranza impegnato a concordare il prescelto, è definitivamente sfumata ieri. Giorgia Meloni, presentando il libro dell’immancabile Bruno Vespa, ha fatto pervenire a Berlusconi un affilato messaggio minatorio: «Ha risposto positivamente all’invito di Letta e visto che il Pd non lo voterà mai significa che ha fatto un passo indietro sulla sua candidatura». La precisazione di Arcore è arrivata più veloce della luce: «Fi si è detta disponibile a discutere con i leader di maggioranza solo la manovra». Il tavolo di Letta diventa così legna da ardere.

Gli effetti della probabile nuova crisi sanitaria impatteranno direttamente sulla partita della presidenza. Di fronte a una seria recrudescenza del virus, tale da mettere a rischio le ripresa, per Draghi, cioè per il solo candidato che appare oggi in grado di raccogliere, magari obtorto collo, il consenso di tutti, lasciare le redini del governo diventerebbe molto più difficile. Forse impossibile. Tanto più che si moltiplicano le pressioni di aree influenti della finanza e dell’industria perché il premier eviti il trasloco. La preoccupazione è secca e giustificata: Draghi non è il solo a poter gestire gli investimenti del Pnrr, ma è l’unico in grado di tenere a bada la rissosità dei partiti di maggioranza.

Però neppure con Draghi ancora premier e il rebus del Quirinale magicamente risolto tutto andrebbe a posto, perché le stesse influenti aree che premono perché il premier resti al proprio posto non vogliono affatto che Draghi esca di scena alla fine del prossimo anno. Ragionamenti solo in parte fantapolitici su un possibile governo Draghi anche dopo le elezioni politiche se ne fanno eccome. Solo che per vagheggiare quella strada ci vorrebbe una legge elettorale proporzionale. Oggi farebbe comodo a tutti tranne che a Meloni ed è infatti lei a puntare preventivamente i piedi. «Il proporzionale sarebbe una vergogna. Confido che Letta non lo faccia passare», sbotta parlando non solo al Pd ma anche al resto del centrodestra. Così, in attesa che a gennaio si aprano le danze, il labirinto diventa di giorno in giorno più tortuoso.