Fino al mese di ottobre, il complesso algoritmo che valuta il rischio epidemiologico delle regioni ha interessato solo gli esperti. Con la seconda ondata, quella valutazione ha determinato la classificazione dei territori tra zone gialle, arancioni e rosse. Perciò, intorno ai dati sono aumentate le attenzioni, culminate con la decisione di rendere pubblici gli indicatori impiegati dalla cabina di regia a cui partecipano Ministero della salute, Istituto Superiore di Sanità (Iss) e conferenza delle Regioni.

Con la pubblicazione, però, sono emerse anche le magagne di un sistema che da un lato fornisce una base scientifica alle scelte politiche ma dall’altro richiede un’efficienza nella raccolta e nel flusso dei dati che non è alla portata di un sistema sanitario diviso tra venti regioni con competenze, risorse e metodologie diverse.

Uno dei problemi riguarda la tempistica, perché i dati per la valutazione del rischio risalgono a una o due settimane prima. «I flussi di dati, in particolare quello della sorveglianza, richiedono del tempo» per essere elaborati, spiega Silvio Brusaferro, presidente dell’Iss e membro della cabina di regia. Ma il ritardo non è un problema insormontabile: «L’incubazione della malattia dura tra i 5 e i 14 giorni, e questo fa sì che si possano dare indicazioni precoci con aggiornamenti settimanali anche “guardando indietro”».

Che gli indicatori vadano migliorati lo mette nero su bianco anche il Comitato tecnico scientifico. «Il Cts sottolinea l’importanza della completezza, rispondenza e tempestività del flusso informativo» e indica possibili miglioramenti: «Rivalutare il peso relativo dei singoli indicatori in base alla situazione oggettiva delle singole regioni», «garantire un supporto operativo alle regioni che non riescono a garantire un flusso informativo tempestivo», «riconsiderare alla luce dell’evoluzione epidemica attuale la valenza degli originali 21 indicatori». L’impressione è che il sistema pensato per la «fase 2», obiettivamente più tranquilla, oggi non regga l’urto della seconda ondata.

Alcune innovazioni sulla tempistica sono già state adottate, spiega Brusaferro: «Su alcune variabili ci può essere un utilizzo del dato più aggiornato possibile, come l’occupazione dei posti letto». Ma le lacune del monitoraggio rimangono numerose. Ad esempio, i dati sulla saturazione delle terapie intensive riportati dalla cabina di regia differiscono da quelli comunicati dall’Agenzia Nazionale dei Servizi Sanitari Regionali (Agenas): com’è possibile che alla cabina di regia in Campania risulti un livello di occupazione delle terapie intensive del 31% – sopra la soglia di allerta del 30%, uno dei criteri per la zona rossa – mentre secondo Agenas è al 28%, visto che le due agenzie pubbliche pescano dagli stessi dati?

Altri dati, poi, risultano palesemente incoerenti. Il rischio epidemiologico in Calabria e Basilicata risulta «non valutabile» in quanto le regioni comunicano la data di inizio dei sintomi (necessaria per il calcolo di Rt) solo per il 34% e il 52% dei casi. Allo stesso tempo dichiarano di effettuare l’indagine epidemiologica rispettivamente sul 92% e sul 100% dei casi. Uno dei due dati mente: l’indagine inizia proprio dalla rilevazione della data dei sintomi.

Sono anche le procedure diverse da regione a regione a generare dubbi e equivoci. Nel Lazio, per esempio, oltre ai test molecolari sono conteggiati anche quelli antigenici. Ma non serve ad alterare i dati della regione di Zingaretti, come ha accusato qualcuno, perché i test sono abbastanza accurati da non richiedere conferma molecolare. La regione annuncia querele: «Oltre al virus bisogna combattere anche le fake news», lamenta l’assessore alla sanità Alessio D’Amato.

«L’errore è stato mettere tutto in mano ai dipartimenti di prevenzione delle Asl: notifica, sorveglianza, atti amministrativi di contumacia, comunicazioni, quarantene» spiega un addetto al tracciamento del nord Italia. «Vuol dire non avere idea di come funzionino i dipartimenti. E le regioni in estate non hanno fatto nulla». L’elenco è lungo: «Mancano telefoni e computer, servivano infrastrutture per i drive in, laboratori per migliaia di test al giorno, un software funzionante per accedere al monitoraggio, vedere i referti, contattare tutti attraverso le anagrafi, server veloci. Le caselle email si intasano. Per attivare Immuni ci vogliono dieci minuti nel migliore dei casi. Il monitoraggio si fa su un sistema, la notifica su un altro, Immuni su un altro ancora. Nessuno ha pensato che la saturazione dei servizi di prevenzione potesse derivare da queste piccole cose». Eppure nessuno ha pensato a mettere nel Cts un epidemiologo, tra i tanti attivi nei servizi sanitari regionali e che conoscono bene le Asl.