Era la fine del 2016 quando l’allora presidente della Bce, Mario Draghi, davanti all’europarlamento chiedeva che anche le politiche fiscali, pur nel rispetto dei bilanci pubblici, facessero la loro parte per favorire la ripresa.

Da quel momento diversi esponenti del mondo delle banche centrali hanno rilanciato l’ipotesi che le politiche fiscali raccolgano il testimone di quelle monetarie. Queste ultime, considerando la mole di denaro messa in campo, faticano ad avviare un nuovo ciclo economico.
Tassi negativi, quantitative easing, finanziamenti super-agevolati alle imprese, garanzie fornite dagli istituti centrali: un armamentario assai ampio dai dubbi effetti, soprattutto dal punto di vista di un cambiamento strutturale che allontani l’anemia economica prevalente.

Il meccanismo di trasmissione della politica monetaria non si afferma, vanificando l’azione delle banche centrali e al contempo indebolendo il loro potenziale ruolo in una futuribile, sebbene non scontata, crisi finanziaria. Se una banca centrale mostra di avere le armi spuntate oggi, implicitamente annuncia la propria impotenza domani. Inoltre la moneta espansiva ha dato vita a una polarizzazione tra l’euforia finanziaria e il ristagno economico.

Da qui la richiesta di un intervento degli Stati per alleggerire ruolo e funzione alla politica monetaria. Passati oltre tre anni da quell’intervento, la sfera politica non sembra intenzionata a padroneggiare nuovamente il contesto. La bussola rigorista non è stata abbandonata dai paesi maggiormente indebitati, ma neppure da quelli che godono una, seppur modesta, salute. I primi provano a prender fiato attraverso spostamenti di alcuni decimali dell’asticella del deficit di bilancio, i secondi non danno vita a programmi di spesa o a investimenti confacenti alle loro potenzialità e al ruolo internazionale che dovrebbero ricoprire. Tutto resta centrato prevalentemente sulle dinamiche spontanee di mercato.

Persino gli Usa di Trump, che intervengono in maniera decisa nel taglio delle tasse per le imprese, trascurano investimenti e sostegno della domanda.
Lo Stato, dunque, non sembra intenzionato ad assumere un ruolo che non sia di regolazione, quando non di semplice ausilio alle esigenze economiche dominanti, mantenendo residuali funzioni di welfare a fini elettorali e, quando occorre, di pace sociale. Ecco che, dopo una breve parentesi in cui è stata avviata una ritirata dell’interventismo monetario, ritorna, anche se in modo cauto e articolato, il protagonismo delle banche centrali. Anzi, l’amministrazione statunitense non perde occasione per criticare il suo presidente della Fed per il modesto e tardivo contributo fornito.

La scorsa settimana l’Economist ha evidenziato come recenti ricerche suggeriscano che fin dagli albori della storia del capitalismo i tassi d’interesse reali siano andati diminuendo in maniera lineare, passando dal 10% del XV secolo fino allo 0,4% del 2018. In tale excursus gli anni ‘80 del secolo scorso costituirebbero solo una breve parentesi.

Da ciò deriverebbe che le politiche monetarie tendenzialmente accomodanti non siano da mettere in relazione con la stagnazione economica. Insomma il settimanale britannico fornisce persino un’interpretazione storica e strutturale delle tendenze che arrivano fino a noi sul ruolo del costo della moneta.

La «nuova normalità», cioè quella corrente di pensiero di marca anglosassone e conservatrice che individua nelle difficoltà economiche del presente un dato con cui imparare a convivere, finisce per scommettere ancora sulle banche centrali.

Rispetto ai profondi mali che attanagliano l’economia si torna a fare affidamento sul carattere astratto della moneta e sulla produzione di fiducia che le ruota attorno, espediente esercitato grazie alla credibilità degli Stati, ai quali sembra rimasta solo questa prerogativa.