«Redefining heaviness», ridefinendo la musica «heavy», è lo slogan del Roadburn, il festival che si svolge ogni anno in Olanda, a Tilburg, nel terzo weekend di aprile. E di una nuova grammatica effettivamente si tratta, stando almeno all’immagine piuttosto superata che si ha in Italia del metal, termine qui raramente utilizzato. A ritrovarsi in questa cittadina infatti è una comunità – circa 4.500 persone al giorno, per quattro giorni – proveniente da tutta Europa, con composizione varia per età e generi ed un’evidente la sensibilità alle questioni etiche del nostro tempo. Anche musicalmente il campo si è allargato molto rispetto al passato, con l’apertura a nuove sonorità e suggestioni da altri generi.

Il festival, nato nel 1999 come appuntamento locale, è cresciuto a partire dal 2005 sotto l’egida di alcuni gruppi di «bandiera» come Amenra, Sunn O))), Neurosis. Da allora la scelta degli artisti avviene sempre più seguendo due direttive, da un lato i nomi che posso soddisfare lo «zoccolo duro» d’affezionati – quest’anno tra gli altri Russian Circles, Ulver, Full of hell, Primitive man – dall’altro lavorando ai «margini» del genere e sulle contaminazioni, percorso che abbiamo prediletto in questo resoconto.

Primitive Man, foto di Peter Troest

DOPO L’EDIZIONE del 2020 cancellata e quella del 2021 realizzata online l’attesa era molta, le aspettative non sono state deluse dalle più di cento band che si sono esibite nelle sette sale a disposizione, spesso contemporaneamente. Talvolta vengono annunciati all’ultimo momento dei «secret show» tramite una notifica sul cellulare, e nel caso di gruppi come Thou e Gnod si formano delle lunghe file che rendono difficile l’accesso. Per queste ragioni è molto difficile che si possa raccontare due volte lo stesso Roadburn, una condizione che va accettata senza troppi rimpianti. I gruppi che provengono dagli Stati uniti sono numerosi e lasciano il segno sul festival. Gli Health, da Los Angeles, fondono pesanti sonorità industrial con la voce delicata del cantante Jake Duzsik. I numerosi cambi di tempo e di registro – riescono ad inglobare nel loro sound pop, dance e black metal – li rendono originali rispetto alla grande influenza dei Nine Inch Nails, con cui hanno firmato una delle loro numerose canzoni collaborative.

Vengono invece da Brooklyn i Liturgy, un gruppo intorno al quale si sono create spaccature e polemiche a causa, soprattutto, della personalità della cantante e chitarrista trans Hunter-Hunt Hendrix. Propongono due concerti – fatto frequente, qui al Roadburn, di suonare più set – nel primo la band esegue per intero l’album del 2019 H.A.Q.Q., dando prova dell’innovazione e della qualità del loro percorso. Le tecniche alla base del black metal vengono maneggiate con tale maestria e gusto da diventare qualcos’altro, riuscendo a dilatare suoni rapidissimi portandoli al loro punto di fusione e abbracciando così ereticamente la tradizione no wave newyorchese. Nel secondo set suonano propongono invece, insieme ad un’orchestra da camera, l’ultimo disco Origine of the alimonies.

Emma Ruth Rundle, foto di William Lacalmontie

SEMPRE rimanendo in territorio statunitense si possono contrapporre i live di due musiciste molto attese. Da un lato Emma Ruth Rundle, già membro di Nocturnes, presenta il suo progetto solista, dall’altro Lingua Ignota ritorna al festival per eseguire il nuovo album Sinner get ready. La prima incanta la sala principale, con tremila persone in religioso silenzio, accompagnandosi con il pianoforte e la chitarra classica. Il lavoro di Rundle non ha nulla di heavy in sé, ma la comunità ha adottato all’unanimità il suo mostrarsi vulnerabile, con onestà e talento. Al contrario Lingua Ignota decide di cantare sulla base pre-registrata del suo disco – e se pure le qualità vocali sono importanti, dopo giorni di concerti dal vivo non si può negare la delusione. Si diceva prima delle contaminazioni con altri generi, in questa direzione bisogna citare senz’altro il set di The Bug. Quando si alzano il fumo e le luci stroboscopiche, appare imponente la silhouette del musicista londinese alla consolle. Espertissimo nel dosare gli elementi, la sua fusione di dub e industrial fa scatenare il pubblico, ancor di più quando fanno il loro ingresso i rapper Flowdan e Logan a cadenzare il ritmo con liriche incendiare.

Dopo l’edizione del 2020 cancellata e quella del 2021 realizzata online l’attesa era molta, le aspettative non sono state deluse dalle più di cento band che si sono esibite nelle sette sale a disposizione, spesso contemporaneamente.

SONORITÀ ESOTICHE di grande interesse vengono poi proposte dai Senyawa, duo indonesiano in cui gli strumenti auto costruiti esprimono una gamma di possibilità sorprendente, con un canto tecnicamente complesso ispirato ad una dimensione arcaica. In tema di sensibilità politica risuonano fortemente le parole del duo australiano Divide and dissolve, le musiciste ricordano la loro origine Cherokee e affermano che è il momento di finirla con la «white supremacy». Questo mentre sassofono, chitarra e batteria si mescolano prendendo strade di grande libertà.

INFINE, una menzione speciale va data ai gruppi italiani. Accolti con calore, non hanno certo sfigurato sui palchi del Roadburn. I Messa, dalla provincia di Padova, sono ormai «cult» in questi ambienti e dimostrano di guadagnarsi la piazza principale eseguendo la lezione dei Black Sabbath alla loro personalissima maniera. La cantante è una presenza quasi angelica che, per contrasto, contribuisce a dar vita ad un prezioso equilibrio. Lili Refrain, da Roma, il seguito se lo sta guadagnando velocemente riuscendo da sola a tenere sul filo il pubblico con percussioni, loop station e una voce intensa, dando vita ad un sound cinematico con richiami morriconiani da cavalcata nel deserto. Per ultimo, Blak Saagan ha eseguito dal vivo Se ci fosse la luce sarebbe bellissimo, un’interpretazione strumentale del rapimento di Aldo Moro in cui bisogna farsi guidare dalla libera associazione, come suggeriscono le foto dell’epoca proiettate, in un’ipnotica immersione sensoriale.