A cinque giorni dalla strage di Bangkok, gli investigatori tailandesi sembrano brancolare ancora nel buio. L’attentato in pieno centro, avvenuto in una zona molto frequentata e a ridosso di un piccolo tempio buddista dedicato a Brahma, non ha per ora che due riflessi politici evidenti: il primo è che polizia ed esercito non sembrano avere una pista e per ora si limitano a smentire le ipotesi circolate in questi giorni senza però escluderne nessuna, il che non fa loro fare una brillante figura.

Il secondo è che la vicenda sta facendo passare in secondo piano l’approvazione della nuova costituzione voluta dal governo militare (civile in realtà ma il cui premier è il generale Prayuth Chan-ocha, a capo dell’esercito da cinque anni e autore del colpo di Stato del maggio del 2014).

La nuova costituzione è nelle mani del Consiglio nazionale per la riforma cui è stata consegnata da un Comitato costituente (Cdc) sul cui sito si può leggere (in tailandese) il testo: è molto lungo e pieno di particolari in linea con un governo di salute pubblica. Prevede un «Comitato di crisi» dai contorni confusi che, a certe condizioni, può prendere il posto di un governo eletto dalle urne.

E, guarda caso, prevede che il premier possa essere un non parlamentare. Una costituzione evidentemente nelle grazie di Prayuth. Il generale ha parlato alla nazione ieri e lo ha fatto soprattutto in relazione alla strage di lunedì. Ma ha affrontato la questione solo per mettere in guardia chi diffonde, come si dice in gergo, notizie «false e tendenziose». Le notizie false e tendenziose lo preoccupano, tanto che il governo ha messo in piedi un altro comitato che deve garantire che si possa leggere solo quel che è certo. Quasi nulla finora.

Ovviamente il comitato se la può prendere solo coi tailandesi e, se è il caso, anche arrestarli. È successo a un poliziotto che sui social aveva scritto di «imminenti notizie». Ora deve spiegare ai suoi superiori.

Il problema invece sono gli stranieri. La corsa è alla smentita di una notizia uscita sul Times, con tanto di nome e cognome di un attentatore, che il giornalista Richard Lloyd Parry ha pubblicato l’altro ieri sostenendo che a due testimoni della strage sarebbe stato mostrato il passaporto di Mohamad Museyin, un uomo i cui tratti somatici corrisponderebbero all’identikit ricostruito sulla base dei fotogrammi – piuttosto sgranati – usciti dalla telecamera a circuito chiuso che ha ripreso il momento in cui l’attentatore deponeva la sua bomba su una panchina nell’area vicina al tempio.

La pista islamica è invece stata esclusa dalle autorità sin dall’inizio e la foga con cui Prayuth ha smentito ieri l’articolo del Times fa pensare che in effetti gli investigatori stiano battendo altre piste anche se si continua a dire che nessuna ipotesi viene esclusa. Per ora ne sono uscite diverse: i musulmani secessionisti del Sud (al confine con la Malaysia, dove vivono tailandesi musulmani di antica origine malese); una non ben identificata «rete»; le camice rosse della famiglia Shinawatra (i due ex premier esautorati dai golpe militari); gli uiguri cinesi, dissidenti che avrebbero voluto punire Bangkok che nega loro l’asilo politico esponendoli alle ritorsioni di Pechino; infine il «terrorismo internazionale», una sigla che può andare da Daesh ad Al Qaeda. Una pista quest’ultima che sembra sia stata rapidamente scartata.

Molto altro però non c’è, se non una ridda di ipotesi e la contrarietà del governo che vorrebbe controllare anche il pensiero dei suoi concittadini. L’imbarazzo comunque non manca specie dopo che un giornalista della Bbc ha trovato sul posto della strage schegge della bomba. Qualcuno dei servizi di sicurezza deve aver ricevuto un bel cicchetto. Secondo il Bangkok Post la polizia è ancora alla ricerca di una «signora in nero», una donna che nei fotogrammi si vede accanto all’attentatore in t-shirt gialla.

Tutti gli altri riconosciuti dalla telecamera o sono stati interrogati o si sono presentati spontaneamente. Tranne lei. Il resto è qualche piccola notizia di cronaca. Come quel signore anonimo che è pronto a sborsare un milione di bath come ricompensa se qualcuno riuscisse ad accendere una luce nel buio.