Quali sono gli ingredienti necessari per confezionare il blockbuster perfetto nella Cina contemporanea? Il 2012 è stato un anno delicatissimo per l’industria cinematografica della Repubblica Popolare, soprattutto a causa di un’ulteriore apertura del mercato, sotto la pressione martellante delle majors statunitensi, ai prodotti di importazione. Il limite massimo di film stranieri (di fatto hollywoodiani) distribuibili è passato da 20 a 34, costringendo i produttori della madre patria e di Hong Kong a unire sempre più frequentemente competenze e capitali per resistere agli Avatar e alle Mission impossible di turno. Ecco allora mega produzioni come CZ 12, l’ultima fatica di Jackie Chan, o il nuovissimo Journey to the west di Stephen Chow. La formula del blockbuster perfetto però, almeno in Cina, non sembra avere a che fare necessariamente con la quantità di soldi investiti nell’operazione. La grande sorpresa dello scorso anno, presentata in questi giorni al Far East Film Festival di Udine, è stata infatti Lost in Thailand di Xu Zheng, una commedia che non solo è riuscita a issarsi in testa al box office cinese superando persino Titanic 3D, ma che con i suoi 200 milioni di dollari di incasso (a fronte di appena 2 milioni di budget), è diventato il film cinese che ha incassato di più nella storia.

Il motivo di tanto successo, soprattutto agli occhi di uno spettatore occidentale, potrebbe risultare misterioso. Lost in Thailand racconta la storia di Xu Lang (interpretato dal regista stesso), uno scienziato tutto business e zero famiglia (la moglie gli ha appena chiesto il divorzio), che vola in Thailandia per trovare il suo capo e farsi dare il via libera alla commercializzazione della scoperta a cui ha dedicato anni di lavoro: il Super Gas, una fonte di energia rinnovabile di enorme valore commerciale. Sulle sue tracce si mette il collega rivale Gao Bo (Huang Bo) che invece vorrebbe vendere la ricetta ai francesi. A sconvolgere i piani di Xu Lang sarà però Baobab (Wang Baoqiang), un sempliciotto dal cuore buono ma terribilmente maldestro con cui si troverà, suo malgrado, a fare squadra. Xu Lang se lo ritrova seduto accanto in aereo, con un caschetto a la Beatles tinto di biondo platino, e in mano un piccolo cactus porta fortuna, che da strumento iniziale di diverse dolorose gag diventerà nella seconda parte la chiave per accedere al momento più commovente del film.

Tra inseguimenti forsennati su paesaggi da cartolina, un dispiegamento quasi caricaturale di dispositivi elettronici (che però complicano la vita di Xu Lang invece di semplificarla), massicce dosi di comicità slapstick, una miriade di situazioni e personaggi beatamente assurdi, e persino un’improbabile comparsata della superstar Fan Bingbing nel ruolo di sé stessa, Lost in Thailand corre veloce verso un finale apertamente sentimentale in cui, proprio grazie a Baobao, Xu Lang riconsidererà le sue priorità, naturalmente a favore della famiglia e contro la schiavitù del lavoro e della tecnologia.

Secondo una famosa regola di Hollywood «le commedie non viaggiano», ed è per questo che Lost in Thailand può incuriosirci e farci sorridere, ma difficilmente potrà davvero conquistarci. Rimane però interessante provare a capire quali sono i fattori che hanno determinato tale strabiliante successo. In parte vanno sicuramente ricercati in questa nuova variazione della «strana coppia», che sembra incarnare le due anime della Cina contemporanea: quella dei nuovi businessman che iniziano a sentirsi intrappolati in una vita solo aziendale e quella della gente semplice, rimasta ai margini del progresso tecnologico e della corsa alla ricchezza ma proprio per questo considerata unica detentrice dei valori tradizionali, che costituiscono la sola via verso una possibile felicità. Non per niente un motivo ricorrente del film è la ripetuta distruzione involontaria da parte di Baobab di ogni dispositivo tecnologico che capiti nelle mani di Xu Lang, quasi a spingerlo a trovare altrove le risposte ai suoi problemi.

Anche l’ambientazione esotica, ma questo vale per i blockbusters a qualsiasi latitudine, ha avuto sicuramente la sua parte, come testimoniato dall’enorme aumento di turisti cinesi in Thailandia registrato negli ultimi mesi. Se poi qualcosa continua a sfuggirci dobbiamo esserne lieti: è il segno che la globalizzazione non ha (ancora) appiattito le diverse cinematografie sul modello unico del mainstream americano.