I libri che leggiamo sono in qualche modo uno specchio della nostra personalità? È da questa domanda che in sostanza prende avvio il recentissimo Leggere per leggere. La libertà di scegliere il libro che più ci somiglia (Salani 2021), un percorso attraverso circa cinquecento titoli per «giovani adulti» firmato dalla psicologa Rachele Bindi insieme all’Associazione Hamelin, da anni attiva nel campo dell’educazione alla lettura per l’infanzia e l’adolescenza. E in certo senso è la stessa domanda a muovere la lettrice e il lettore abituale quando mette in bella vista un volume molto amato.

Ora però Jess McHugh, giornalista culturale e ricercatrice indipendente, parte da questo interrogativo per un obiettivo più ambizioso: fotografare l’evoluzione di un intero paese – gli Stati Uniti – attraverso tredici titoli di megasellers, opere che nel corso del tempo hanno venduto decine di milioni di copie, e in diversi casi continuano a farlo. Il risultato del suo studio si condensa (naturalmente) in un libro, Americanon. An unexpected U.S. history in thirteen bestselling books (Dutton 2021). E diciamo la verità, il quadro che viene fuori da questo nuovo «canone americano» è – almeno a dare retta all’autrice – sconfortante.

Dall’ormai più che bicentenario Old Farmer’s Almanac, l’almanacco del vecchio contadino (prima edizione 1792) fino alle 7 regole per avere successo (titolo italiano di The 7 habits of highly effective people, uscito negli Usa nel 1989) di Stephen R. Covey, passando per un caposaldo come il Webster’s Dictionary e per il celeberrimo – anche grazie a Woody Allen – Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso (ma non avete mai osato chiedere) di David Reuben, non c’è titolo, fra quelli inclusi in Americanon, che non incontri la disapprovazione di McHugh. Secondo la studiosa, infatti, tutti questi libri confermano che la cultura americana è fin dalle origini individualista e conformista, ha il culto del successo, non si dimostra affatto «inclusiva».

«Americanonscrive Louis Menand sul New Yorker – appartiene a una strategia critica che prende di mira le disuguaglianze attuali nella vita americana attaccando le rappresentazioni precedenti di quelle disuguaglianze».
In questo approccio, però, c’è secondo Menand più di una contraddizione: in primo luogo, «i libri di cui scrive McHugh sono manuali o testi di auto-aiuto» ed è perlomeno difficile che libri simili mettano in questione gli assetti sociali preesistenti, come parrebbe aspettarsi l’autrice di Americanon: «Il galateo e ‘il sovvertimento dei vecchi modi di fare’ non sono esattamente concetti congruenti». Senza contare che i testi di auto-aiuto non li hanno inventati gli americani: «Come ha sottolineato Beth Blum in The Self-Help Compulsion (2020), leggere libri per avere consigli di vita è una pratica antica: l’Etica Nicomachea di Aristotele si può considerare una guida al vivere virtuoso e Blum definisce La consolazione della filosofia di Boezio, scritta nel sesto secolo, ‘biblioterapia avant la lettre’».

Ma soprattutto, McHugh «sembra non credere nelle fedi e nei canoni. Preferisce, dice, l’ambiguità e il cambiamento al mito di una narrazione nazionale unificata. Tuttavia, ambiguità e cambiamento sono solo parole-chiave di una narrazione differente. La posizione secondo cui non dovremmo volere che tutti gli americani la pensino allo stesso modo ha un’eccezione, ed è che vogliamo che tutti gli americani pensino che non dovremmo volere che tutti gli americani la pensino allo stesso modo. Per me va bene, ma è un credo. Anche la diversità ha il suo canone, e Betty Crocker (pseudo-autrice di diffusissimi libri di cucina, ndr) ne è esclusa».