Tutta colpa del Bds. È questa la reazione del co-fondatore e amministratore delegato della società israeliana Nso, Shalev Hulio, alla bufera che si è abbattuta sulla compagnia, e di riflesso su Tel Aviv, dopo le rivelazioni di Forbidden Stories, Amnesty International e un gruppo di quotidiani internazionali: lo spyware Pegasus, fiore all’occhiello della Nso, ha hackerato 50mila telefoni in tutto il mondo. Attivisti e giornalisti (si sapeva già, ma all’epoca importava poco) e leader mondiali, da Macron a Khan.

Se il chief minister dello Stato indiano di Assam ha pensato bene di proporre la messa al bando di Amnesty per aver rivelato i dettagli del cyberspionaggio mondiale, Hulio se la prende con la campagna di Boicottaggio Disinvestimento e Sanzioni, nata nel 2005 in Palestina e divenuta presto una rete globale. «Uscirà fuori che è stato il Qatar, o il Bds. O entrambi», ha detto alla stampa israeliana accusando parti terze di aver hackerato Pegasus e averlo usato per creare lo scandalo. Fosse vero, la Nso non ne uscirebbe comunque benissimo.

In ogni caso la società insiste: loro forniscono lo strumento, poi cosa ne facciano i paesi acquirenti non c’è modo di saperlo. La questione politica però resta e travolge il governo israeliano. Se nel paese sembra che lo scandalo interessi poco – si parla e ci si indigna molto di più del gelato Ben&Jerry’s fuggito dalle colonie nei Territori Occupati – le reazioni degli alleati occidentali preoccupano il neonato esecutivo Bennet-Lapid.

La Francia – colpita al cuore, con l’Eliseo spiato d’eccellenza – ha avviato un’inchiesta interna per valutare l’ampiezza dell’attacco subito, mentre emerge che la Gran Bretagna si era da tempo lamentata con Tel Aviv per le attività della Nso e il loro impatto su democrazia e libertà d’espressione. A dirlo è Nicholas True, ministro dell’ufficio del gabinetto britannico: «Abbiamo manifestato diverse volte al governo israeliano le nostre preoccupazioni sulle operazioni della Nso».

Israele risponde indirettamente con la creazione di un team interministeriale che indaghi su eventuali violazioni della licenza da parte della società. Il deputato Ram Ben-Barak, capo della commissione parlamentare affari esteri e difesa (nonché ex capo del Mossad), ha annunciato l’intenzione di rivedere tutte le licenze di esportazione e di introdurre maggiori controlli sull’export di prodotti opachi come Pegasus, la cui autorizzazione ricade sulla Deca, l’agenzia di controllo del ministero della Difesa.

Per quanto Tel Aviv provi a gettare acqua sul fuoco, i legami politici rimangono. A partire dagli investimenti delle autorità israeliane nel settore cyber (non a caso i due co-fondatori della Nso erano membri dell’unità di ricerca e sviluppo del ministero della Difesa) e dal loro capillare utilizzo sulla popolazione palestinese, per proseguire con l’uso di tali prodotti per costruire relazioni internazionali. Una cyber diplomacy fotocopia di quella – di successo – della vendita di armi e tecnologie militari, che ha permesso a Israele di rafforzare legami con alleati meno solidi di altri o di creare ponti con Stati apparentemente rivali.

Il caso delle monarchie del Golfo o dei paesi africani è uno di questi: la vendita di sistemi di sorveglianza e controllo sociale ha spalancato porte già semi aperte da interessi politici comuni (il contrasto all’Iran).

Una politica che oggi però potrebbe rivelarsi un boomerang, secondo alcuni esperti sentiti dal portale al-Monitor: «Le esportazioni di armi israeliane hanno aiutato il paese a forgiare ogni tipo di legame – dice Yoel Guzansky dell’Istituto di Studi sulla sicurezza nazionale di Tel Aviv – Ma a volte i danni sono più grandi dei benefici: Israele può essere visto come colui che aiuta regimi autocratici a reprimere le società civili».

«Israele è un incubatore di tecnologia oppressiva», gli fa eco l’avvocato esperto in cyber law, Jonathan Klinger. Dopotutto la Nso opera da Israele. E lo fa con l’approvazione del governo.