Nove personaggi maschili schierati cronologicamente dai diciassette ai settantatré anni, dispersi ai quattro angoli d’Europa, sorpresi impietosamente nell’atto di elaborare o commettere piccole nefandezze, spasmodicamente protesi alla ricerca di una conferma sempre più improbabile – ma non per questo meno disperata – del proprio ego: in Tutto quello che è un uomo (traduzione di Anna Rusconi pp. 402, euro 22,00) lo scrittore canadese di origini ungheresi David Szalay tratteggia con brillantezza e autoironia un’immagine certo non lusinghiera del maschio occidentale, scegliendone un campionario di stupefacente omogeneità.

Bianco, europeo ed eterosessuale (con l’unica eccezione, forse, di Tony, il settantenne depresso al centro dell’ultimo frammento), l’uomo descritto da Szalay ha molte facce ma in fondo è sempre uguale. Coinvolti in inaspettati ménage à trois o rifugiandosi nella solitudine apparentemente confortevole delle loro seconde case, questi individui scialbi e insicuri non riescono comunque a depistare gli interrogativi che li assillano, e ai quali, ovviamente, non sanno fornire una risposta. Sottile, lucido, spesso caustico, questo romanzo atipico, costruito su una fitta trama di rimandi interni, «smonta» il mito dell’unicità individuale e, insieme, il culto narcisistico della propria personalità. Ne parliamo con l’autore, che ieri era a Roma, a «Libri Come».

Da un punto di vista strutturale, «Tutto quello che è un uomo» si basa su procedimenti come la ripetizione o la variazione di un medesimo tema, che, in genere, vengono utilizzati più di frequente in poesia o nella composizione musicale. Com’è arrivato all’elaborazione di una forma così particolare?
In effetti, ciò che accade all’interno del libro è descrivibile come una sorta di «variazione nella ripetizione». Ma questo non esclude la progressione lineare – il protagonista di ogni singolo segmento è più anziano di quello che lo precede. Ed è proprio questo movimento in avanti, nel tempo e nell’età, che rende il mio testo, se non proprio un romanzo, quantomeno un organismo unico, e non, come potrebbe sembrare a prima vista, una raccolta di storie brevi, più o meno legate tra loro. L’intreccio è centrato sul processo dell’invecchiamento e sulla scoperta della propria natura transeunte e mortale. La sua forma è emersa da sé, quando dopo aver terminato il primo frammento (che, in realtà, nella successione finale è il terzo), mi sono reso conto di volerne scrivere altri della stessa lunghezza, nella speranza che, una volta collegati, potessero dar vita a qualcosa di più complesso della semplice somma delle parti.
I suoi protagonisti sono descritti in modo alquanto minimalista. Lei non si addentra nel loro passato, e tantomeno nella loro psicologia; anche la posizione che assumono nei confronti della vita emerge esclusivamente attraverso il monologo interiore o i dialoghi con altri personaggi. Questa restituzione di una serie di tranche-de-vie ha l’effetto di enfatizzare l’universalità dei loro caratteri, permettendo così al lettore di identificarsi con ognuno di loro…
Sono d’accordo, intendevo esattamente evitare di attribuire ai miei personaggi storie specifiche, in modo da focalizzare l’attenzione su ciò che sono in quel dato segmento narrativo senza spiegare perché sono diventati quel determinato soggetto. In altre parole, volevo concentrarmi sul loro carattere esemplare più che sulla loro individualità. Se penso ai miei nove protagonisti, tendo per lo più a vederli come un solo personaggio, eterogeneo e composito. In generale, volevo smettere, se possibile, di considerare l’individualità come un feticcio, suggerendo che, per quanto diversi, i miei protagonisti stanno tuttavia sperimentando una sola vita comune. In fondo è ciò che obietta il personaggio di Murray alla cartomante croata quando «indovina» quel che si nasconde dietro di lui: «Chi è che non ha un passato del genere? Pensiamo di essere speciali, e invece siamo tutti uguali».
Sullo sfondo di questa intercambiabilità, lei dà un particolare rilievo alla figura di Simon, il protagonista della prima storia che riappare inaspettatamente nell’ultima. Grazie a questo espediente, il lettore scopre di colpo che i suoi personaggi non vivono isolati nel loro frammento di mondo, come tante monadi leibniziane; almeno potenzialmente, infatti, potrebbero essere legati tra loro. A che punto della scrittura ha deciso di «richiamare» Simon nella trama?
Piuttosto tardi, mi pare, cioè quando ho cominciato a pensare seriamente alla storia conclusiva. Rimandando il lettore al primo tassello del libro, ho cercato di aprirgli davanti una prospettiva, spingendolo a riconsiderare ciò che aveva letto fin lì come l’immagine complessa di un unico processo. Ovviamente, volevo anche chiudere il cerchio, evocare l’idea di un ciclo che è connaturato all’esistenza umana e che si traduce in un intreccio le cui storie sono ambientate consecutivamente nell’arco di nove mesi, da aprile a dicembre. Ma, di nuovo, questa ciclicità investe più l’aspetto comunitario dell’esperienza umana – in società o in famiglia – e quindi si riconnnette a quel distacco da una prospettiva esclusivamente individualistica cui accennavo prima.
A unire i suoi protagonisti interviene anche un altro elemento: l’essere ritratti in un paese diverso dal loro, lontano da casa e dai «gioghi» dei loro legami affettivi con le donne e l’eventuale prole. Perché questa enfasi sul motivo del viaggio?
Benché gli spostamenti aerei siano alla portata di tutti da decenni, al tempo stesso il viaggio continua a essere una esperienza complessa: l’allontanamento da ciò che è familiare e la conseguente decontestualizzazione offrono, se non una accresciuta consapevolezza di sé, quantomeno la possibilità di «rinfrescare» la percezione di quel che si è. Mi sembrava bizzarro che, a quanto ne so, la narrativa contemporanea non se ne fosse ancora occupata, al punto che all’inizio, quando il titolo di lavoro del libro era ancora Europa, pensavo di fare di questa mobilità frenetica il filo conduttore tra le nove storie. L’accento si è spostato sulla ciclicità biologica dell’esistenza umana soltanto in un secondo momento.