I paesi più poveri vanno incontro a problemi di salute crescenti, a causa della sottoalimentazione. Ma in realtà anche quando le popolazioni si arricchiscono la loro salute ne risente, come se il valore aggiunto della disponibilità di cibo finisse per disperdersi, perché la gente si nutre di alimenti trasformati ad alto contenuto di sale, zucchero e grassi :ibo che rende i consumatori obesi e malati. Solo quando le società diventano molto ricche si riscoprono i benefici del cibo sano e salutare, e si comincia ad apprezzare la sostenibilità.

IN INDIA ironicamente sta accadendo tutto in una volta. Da un lato l’enorme sfida contro la malnutrizione, dall’altro una battaglia crescente contro l’obesità e le malattie associate, dal diabete all’ipertensione. Ma abbiamo un vantaggio: non abbiamo ancora perso la nostra cultura primordiale legata al cibo. Prestiamo ancora attenzione alla natura, all’ambiente, ai valori che scandiscono i nostri pasti: cibo fatto in casa e coltivato sul territorio, pasti spesso più che frugali. Succede quando è povera la maggior parte della popolazione. La vera domanda, e la vera sfida che dobbiamo porci è se l’umanità potrà continuare a consumare pasti sani, frutti di biodiversità, costruiti su ricche culture culinarie, anche quando si arricchisce. È questo il punto.

PER RAGGIUNGERE QUESTO OBIETTIVO dobbiamo attivare le opportune pratiche agroalimentari. Non è accidentale che le società più ricche tendano ad ammalarsi a causa del cibo cattivo. È conseguenza della gestione della catena alimentare: i governi hanno smesso di regolamentare la filiera con norme che tutelino realmente la salute dei cittadini e insieme l’ambiente. Molto semplicemente, hanno permesso ai potentati dell’industria di prendere in consegna la più essenziale delle nostre funzioni vitali: la nutrizione, appunto. Mangiare male significa cambiare la naturale ritualità delle pratiche agricole in modo che il business sia integrato, industriale, globale. Un modello intensivo che accumula cibo spazzatura avvelenato chimicamente: si tratti di pesticidi, antibiotici o molto altro. Negli ultimi anni il Centro per la Scienza e l’Ambiente di New Delhi, che dirigo, ha realizzato molti test analizzando i pesticidi negli alimenti trasformati e nei trans-grassi dell’olio commestibile, negli antibiotici del miele e, più recentemente, nei residui di antibiotici nel pollo. Le conseguenze di queste analisi hanno scosso i consumatori e il governo indiano ha finalmente agito, introducendo standard più severi per i residui di pesticidi nei prodotti alimentari trasformati; concordato, sia pure a malincuore, di regolare lo standard antibiotico trans-grasso, fissato vicino allo zero per il miele. Più recentemente, ha vietato l’uso di antibiotici per velocizzare la crescita del pollame. Ma tutto questo non è abbastanza. Il fatto è che abbiamo bisogno di un modello di crescita agricola che valorizzi la produzione locale del cibo buono e non di un modello che prima interviene chimicamente sulla produzione agroalimentare e poi corregge questo approccio. Il business della sicurezza del cibo, per ora, è progettato a garanzia della sua igiene e di standard generali. Ma i regolamenti per essere applicati necessitano di ispettori e molte procedure fanno lievitare i costi burocratici. Così, per ironia della sorte, quello che rischia di uscire fuori dal mercato, mediamente, è ciò che più giova al nostro corpo e alla nostra salute: i piccoli agricoltori e le aziende agricole locali. E quello che sopravvive è spesso ciò di cui non abbiamo bisogno: la grande industria agroalimentare.

IL GOVERNO INDIANO ha istituito le linee guida per il junk food: abbiamo convenuto che era giunto il momento di adottare un approccio su tre fasi alla nutrizione e al cibo nel Paese. Innanzitutto vietare o almeno limitare severamente la disponibilità di alimenti ultra-elaborati – ricchi di sale, zucchero e grassi – nelle scuole. In secondo luogo, abbiamo detto che tutto questo non avrebbe funzionato se le persone non fossero state adeguatamente informate a proposito di quello che mangiano: quindi era necessario che le etichette alimentari specificassero quanto grasso, zucchero o sale conteneva quel cibo, in rapporto al fabbisogno della dieta quotidiana. Terzo step: la regolamentazione della comunicazione e pubblicità del cibo spazzatura. Non potevamo più permettere alle icone del cinema indiano e ai campioni di cricket di prestarsi a fare pubblicità a cibo cattivo.

NEL 2014, finalmente, l’Alta Corte di Delhi ha approvato la relazione. Ora ha chiesto al governo di impegnarsi e difendere i cittadini dai potentati industriali del cibo spazzatura. Più facile a dirsi che a farsi. Il futuro sembra essere una dimensione perfetta per questo business e mi chiedo se non ci trasformeremo tutti in zombi alimentari.

LA STRADA DA PERCORRERE è ancora tutta in salita. In India amiamo celebrare i colori e i sapori del nostro cibo, i profumi delle spezie, la biodiversità degli alimenti: non è solo un rito, è la consapevolezza che c’è in palio la ricchezza e la varietà dei nostri pasti. Altrimenti ci ritroveremo nel piatto un cibo asettico, prodotti sterili globalizzati e progettati per un gusto universale. Sta già succedendo: oggi spesso la gente mangia cibo nelle lattine di plastica. Se perdiamo il contatto con la cultura delle cucine locali, perdiamo più del gusto e dell’olfatto delle pietanze. Perdiamo la vita. Perdiamo il nostro domani.