Ieri il ministro Dario Franceschini ha annunciato, trionfalmente, davanti al Parlamento europeo, la sua piattaforma digitale pensata per offrire online il prodotto culturale nel resto del mondo: danza, concerti, prosa, lirica. «L’Europa intera è il più grande produttore di contenuti culturali. In un contesto sempre più digitale, accelerato dalla pandemia, è venuto il momento di costruire una piattaforma comunitaria che offra la cultura europea online. Noi l’abbiamo fatto in Italia, finanziando con 10 milioni di euro una piattaforma pubblica che partirà nei prossimi mesi che offrirà tutta la cultura italiana online: prosa, teatro, danza, musica, concerti. Ma è evidente che tutt’altra forza deriverebbe dalla scelta dell’Unione europea di costruire una piattaforma che offra la cultura europea, capace di farci confrontare con i giganti della rete» ha detto Franceschini con un’enfasi – o un incantamento? – fin troppo sopra le righe, che in altri tempi strapperebbe persino un sorriso di tenerezza.

ALLA PIATTAFORMA – secondo quanto riporta «il Messaggero» – parteciperebbero la Cassa Depositi e Prestiti (con il 51% del capitale e un investimento di 9 milioni di euro) e la piattaforma privata Chili (con il 49% e altri 9 milioni). Il MiBact a sua volta controllerebbe il progetto investendo altri 10 milioni di euro provenienti dal Recovery Fund – soldi pubblici che si potrebbero invece destinare alla sopravvivenza dei luoghi fisici dello spettacolo. E fra i cofondatori della piattaforma Chili – che non ha ancora però confermato la sua partecipazione – c’è Stefano Parisi: era stato candidato sindaco di Milano per Forza Italia quando vinse Pisapia

PECCATO però che intanto la situazione stia cambiando – il ministro forse non se ne è accorto perché troppo preso dal suo nuovo gioco – e nel resto del mondo le sale cinematografiche, i teatri, i musei cominciano a riaprire. Se non sono già aperti. Come in Portogallo, e nonostante regole di coprifuoco assai più severe delle nostre che prevedono dal lunedì al venerdì il divieto di uscire tra le 23.00 e le 5.00 e il fine settimana dalle 13.00 alle 5.00 del giorno dopo: ma i gestori di cinema e altro hanno rimodulato gli orari in modo da utilizzare per il fine settimana le matinée. O in Olanda dove le sale non hanno mai chiuso – prova ne è stato il Festival Idfa da poco concluso che per il pubblico olandese si è svolto in presenza.

I cinema sono aperti anche in alcune zone della Spagna, fra cui Barcellona (esclusi quelli nei centri commerciali), e in Svizzera, mentre in Belgio – dove ristoranti e bar sono chiusi – rimangono fermi per ora cinema e teatri ma sono aperti i musei. In Francia la riapertura è stata fissata per il 15 dicembre, permane il coprifuoco (alle 21.00) ma col biglietto degli spettacoli si può rientrare senza patemi. In Germania è ancora tutto chiuso – ma anche lì il lockdown è più severo che qui, riguarda ristoranti e bar fermi anch’essi se non per l’asporto – e lo stesso in Austria dove si parla di una possibile riapertura per il 20 del mese. Nel Regno Unito i cinema hanno riaperto ieri nelle regioni appartenenti al primo e secondo livello di diffusione della pandemia – su una scala di tre – quindi anche a Londra e Liverpool, dove si preparano a tornare in attività anche grandi catene come Odeon e Vue (che avevano chiuso per mancanza di blockbuster) portando in sala vecchi «classici» natalizi come Die Hard.

La cosa più preoccupante in Italia che è di riapertura dei luoghi della cultura non si fa proprio menzione. Tutto tace nella selva dei Dpcm natalizi in cui, per carità, il tortellino in brodo vale più di uno spettacolo a teatro o di un film in sala. E mentre i ristoranti rimarranno infine aperti e i centri commerciali pure, sui tavoli dell’audiovisivo in corso anche nelle scorse settimane – dove mancavano clamorosamente i festival di cinema italiani – la parola «riapertura» era quasi un interdetto. Tutti a casa ma solo per quanto riguarda la vita culturale! E non venisse fuori il ministro Franceschini con le ragioni dell’ «emergenza sanitaria» perché le immagini delle folle alle inaugurazioni romane del nuovo centro commerciale le abbiamo viste tutti, così come ogni giorno assistiamo agli assalti alle catene commerciali.

L’ALTRO DATO che colpisce in questa situazione è il silenzio – fragoroso verrebbe da dire senza timor di retorica – delle categorie interessate. Dopo il primo boato seguito all’annuncio delle chiusure, a fine ottobre, più nulla. I maligni dicono che l’arrivo dei ristori ha messo in pace tutti, ma non è così. Sono in molti che vorrebbero riaprire, anche perché la politica dell’esercizio è assai diversa, e se i circuiti major soffrono per la mancanza di blockbuster, altre sale invece potrebbero vincere le loro scommesse con una programmazione differenziata e grazie al radicamento sul territorio.
Perché non lasciare facoltà di scelta? D’altronde quando il 15 giugno le sale avevano potuto riaprire le porte dopo il primo lockdown, non tutti avevano scelto di farlo. Chiediamo: le associazioni di categoria, Anec, Anica, le istituzioni cosa pensano? Come si stanno organizzando? Sembra passato un secolo da quando, ministro Franceschini intesta, ci si vantava della Mostra del cinema di Venezia, il primo festival mondiale riuscito in presenza durante la pandemia. A oggi, sembra essere servito a ben poco, visto appunto che nella percezione comune – e mettendo da parte la difficoltà delle riaperture autunnali – i cinema sembrano destinati a uscire dal paesaggio quotidiano nell’indifferenza.

Lo stesso sul fronte teatrale, i direttori sono silenti. Anzi, c’è chi, come Roberto Giambrone, presidente dell’Anpols, l’associazione nazionale fondazioni lirico sinfoniche, solo qualche giorno fa esprimeva larghissima soddisfazione per gli esiti dell’iniziativa delle fondazione liriche «aperti nonostante tutto» senza fare accenno a riaperture fisiche future – perfettamente in sintonia con la linea governativa.
Del resto, mesi fa, in ottobre prima delle nuove chiusure lo stesso Giambrone (fonte «Notizie di spettacolo») manifestava «preoccupazione» per una stagione «dimezzata» dalle norme di sicurezza. Meglio smaterializzarsi in piattaforma appoggiandosi ai ristori? E sembra che anche nel settore dello spettacolo dal vivo molte realtà non avessero ancora riaperto al momento della nuova chiusura. Dunque? Anche qui non è così semplice né scontato senza dimenticare che i lavoratori dello spettacolo dal vivo continuano a essere i più penalizzati.

POI CI SONO I MUSEI: meglio le visite in 3D che in presenza? Siamo sicuri che a un turista remoto possa interessare? Andrebbe ricordato che musei e mostre non sono dei «reality» e non si allestiscono come fossero case del Grande Fratello. Spesso le collezioni sono radicate nel territorio e chi le visita fa una esperienza multipla nutrendosi di arte, storia sociale, economica e antropologica. Altro che virtual tour.
Il punto è: se intorno si riapre, a chi – forse con l’eccezione della lirica – può interessare di guardarsi da casa uno spettacolo di prosa italiano? Quelli che vivono nei paesi avanzati andranno a teatro fisicamente. O al cinema, al museo.Mentre questo «vuoto» italiano finisce per confermarci ancora una volta per quel buon vecchio «paese dei balocchi» di collodiana memoria.