«Vivo è stato un regalo inaspettato. È stata un’intuizione geniale della mia casa discografica che ha capito come la data di Roma del tour di Viaggiatore immobile poteva riservare delle sorprese. Non so perché, ma avevo deciso di cambiare la scaletta dei brani che fino ad allora mi aveva accompagnato. Chissà, un fattore astrale, concomitanze magiche. La band di sicuro suonava con molto vigore». Remo Anzovino parla a ruota libera del suo ultimo album Vivo, registrato nell’aprile scorso all’Auditorium Parco della Musica e pubblicato a ridosso delle feste.

Compositore e pianista di Pordenone, classe ’76, avvocato penalista, si dedica sin da giovanissimo alla musica per cinema, teatro e per la pubblicità lavorando a più di 50 produzioni. E ha sonorizzato oltre trenta capolavori del muto, collaborando con cineteche e festival. Dopo quattro album da studio, è arrivato il momento di un disco dal vivo. «Ho cercato, di portare intorno al mio live dei musicisti che avevano delle specifiche attitudini rock. C’è molto e si sente, dei suoni dei Radiohead e dei Sigur Ros. È stata una mia scelta. Perché, non desideravo portare la musica registrata in studio fuori così com’era dal vivo. Il mio gruppo doveva suonare e ha suonato con grande rigore e creatività allo stesso tempo come una rock band. Volevo che si accendesse una festa. Le aggiunte che si sentono, poi, derivano da Bob Marley».

Nella tua musica si avvertono echi di una profonda conoscenza, peraltro non passiva, ma critica, del ’900 artistico. I blocchi sonori si sgrumano in spazi scenografico-teatrali, basta vedere la ripresa del concerto per i 50 anni della tragedia del Vajont nel dvd contenuto in «Vivo», o in riferimenti letterari e cinematografici.

È assolutamente così! La mia musica per dire non nasce dalla musica, ma dall’ascolto onnivoro degli altri. La lettura di un libro, la visione di un film, addirittura i fatti della quotidianità possono darmi lo spunto per riflettere e comporre.

È molto interessante questa tua definizione di ascoltatore onnivoro degli altri. Da un lato ti allontana dalla figura del musicista puro dall’altra invece ti consente di ragionare su tutta una serie di relazioni che poi si riverberano nei tuoi brani e nelle composizioni di più ampio respiro…

I miei ascolti sono stati sempre trasversali. Avverto l’esigenza di ascoltare le melodie e le arie di Verdi e Puccini, parti importanti della mia tradizione come ritengo che non si possa fare a meno delle sequenze memorabili di Steve Reich che con rigore altrettanto importante procedono in senso contrario asciugando le strutture melodiche. Ma sento vicino anche il punk e la scena new wave degli anni 80. Ancora la venerazione per un musicista come Roberto De Simone; ho subito una vera e propria fascinazione per La Gatta Cenerentola. Qui, pur essendo di Pordenone, affiorano le mie radici familiari napoletane…

Hai ricordato le tue radici e la tua provenienza geografica…

Sono legato alla mia duplice anima nordista e allo stesso tempo di figlio di figli del sud. Credo che tutto questo si senta nella mia musica. Anche la particolarità di vivere in una piccola e operosa città del Nord come Pordenone…

Non sei solo musicista ma anche avvocato penalista. Si conosce la tua militanza in difesa dei diritti civili proprio in un periodo di grande dibattito sulla condizione delle carceri e delle condizioni di vita dei detenuti in Italia…

La mia professione di avvocato mi porta a contatto con realtà che altri non «vedono», spesso entro nella vita degli altri e lo faccio attraverso il carcere. Qui conosco, un numero enorme di storie. Inoltre, vivo in una città che ha uno dei peggiori carceri d’Italia. Bisogna, poi, mettersi nell’ordine delle idee che il carcere non serve a niente. Molto spesso non si comprende che a un delitto commesso non sempre corrisponde un delinquente. Non c’è la capacità di distinguere caso da caso. Si viaggia sull’onda emotiva del fatto e non sul dispiegamento nel tempo dello stesso. La letteratura in tema è piena di esempi sulla pena, l’afflizione, il supplizio e i danni sociali. Bisogna ripensare il sistema, oggi disumano, e riprendere il dettato costituzionale di rieducazione del detenuto, che può sprigionare ancora energie positive.