Un film su Fela Kuti. Ma come, uno solo? La notizia comunque è che arriva anche in Italia – nelle sale da domani, distribuzione Wanted – dopo essere stato premiato all’ultimo Sundance film festival.

Il “documusical” Finding Fela è il racconto orchestrato dal regista statunitense Alex Gibney sulla vita e le opere del musicista più geniale, politico e ispirato che sia uscito dalla scena dell’Africa post-coloniale. Ma lo è un po’ anche del musical made in Broadway che lo ha preceduto, Fela!, affidato alla regia e al tocco magico del coreografo Bill T. Jones. Che ha raccolto sia polemiche sia incassi e riconoscimenti, presumibilmente per il coraggio dimostrato nell’affrontare una figura così complessa, esaltante, controversa, senza l’ausilio di alcuna “autenticità” e con in più una scrittura supponente come quella del co-autore Jim Lewis. Almeno Jones ci sentiva dentro «un fuoco», qualcosa di misterioso che lo costringeva a «muovere il culo», ma entrambi si ritrovano uniti nella bizzarra convinzione che la musica di Fela non avesse forma, non un capo né una coda. L’antitesi di un musical insomma. Che ha però portato a conoscenza di un pubblico ignaro dei suoi dischi, delle sue battaglie e delle sue disavventure, la grandezza lirica di un personaggio così rivoluzionario.

Il film comunque inizia e finisce a Broadway e dunque racconta anche di come artisti che avevano una conoscenza superficiale della materia finiscono per venirne risucchiati. Quel punto di partenza e di arrivo sembrerebbe un limite, un voler imporre una cornice alla cornice, laddove ne basterebbe già una a trasmettere un senso di oppressione, a negare il giusto respiro a tutta la vicenda e soprattutto alla musica di Fela. Ma c’è esaltazione nel contrasto che si crea tra le immagini del musical e quelle d’archivio, con l’originale in pista. Malgrado le composizioni di Fela, le sue proverbiali durate, la costruzione pezzetto dopo pezzetto di maestosi affreschi sonori, tutto il processo creativo che Fela ha sempre difeso con i denti dai tentativi di formattazione dell’industria discografica, ne risulti oggettivamente mortificato. Per ottenere giustizia in questo senso ci sono i dischi, sarebbe disonesto non considerarlo.

Il film s’impenna quando segue l’eloquio di Fela nel suo tempio, lo Shrine, nei frammenti del fantastico concerto del 1978 a Berlino che segnò anche il disfacimento della sua orchestra, gli Africa ’70. E nella carrellata di personaggi che il regista chiama a testimoniare, i figli e i musicisti, il produttore Rikki Stein, il compagno di scorribande giovanili J.K. Braimah , il giornalista cubano Carlos Moore, suo primo e forse unico biografo ufficiale. Poi il batterista Tony Allen e Lemi Ghariokwu, autore delle iperboliche copertine dei dischi di Fela, che sono stati forse i più intimi complici di quel che il musicista nigeriano aveva in mente.

Fela Anikulapo Kuti (1938-1997), l’uomo che portava la morte nella sua borsa. Ha inventato l’afrobeat, una musica che prima non c’era e oggi pulsa in una miriade di devote eppur vane rappresentazioni, dal Brasile al Giappone alla New York degli Antibalas, che surrogano appunto la musica di Fela nel musical.

Ha irriso, denunciato e sfidato le dittature militari che si sono alternate al potere in Nigeria durante gli anni ’70 e ’80 senza mai cedere terreno, incassando e ripartendo ogni volta a volume ancora più alto con le sue analisi, le provocazioni, l’attivismo spinto, le roboanti convinzioni.

Ha irriso e sfidato anche l’Aids, in modo altrettanto spavaldo e persino politico, se vogliamo, per finirne però sopraffatto. E qui più che toccare una corda sensibile lascia affranto e arrabbiato Bill T. Jones, che sulla compenetrazione tra malattia, amore, arte ha costruito una parte significativa della sua poetica di danzatore e coreografo. Per lui è troppo. Quasi quanto l’atteggiamento a dir poco ambivalente che Fela aveva con le donne.

Il regista del film ci sa fare nel cogliere l’indignazione, ma anche il senso di quel limite che il regista del musical decide di non valicare. Nutrendosi piuttosto del rapporto che Fela aveva con una figura di intelligenza muscolare come quella materna, una femminista africana ante-litteram, una statista ombra, una fonte politica di conforto e confronto costante. La sua scomparsa in seguito alle violenze subite nell’assalto dell’esercito al compound che faceva da base alla comunità di Fela, sarà il primo serio k.o. per il musicista.

Più libero di spaziare con letture a fronte, Alex Gibney si sofferma sulle 27 ragazze del gruppo sposate all’unisono, perché i giornali la smettessero di chiamarle «puttane minorenni» e le riconoscessero come «regine». Le sue regine. E ovviamente non omette gli aspetti machisti e le considerazioni sulla questione femminile derivanti dai cascami di una presunta tradizione yoruba. «Era un figlio di puttana, un insieme di figli di puttana», sentenzia in fondo con amore Sandra Izsador, la donna che aggiunse un tocco Black Panther alla sinfonia panafricanista che rimbombava nella testa di Fela.

Quando c’è di mezzo lui persino la malinconia che si prende la scena da un certo punto in poi sprigiona potenza. Il delirio spirituale, l’ennesimo arresto e l’indurirsi di un corpo a corpo già furibondo con il regime che attirerà anche l’attenzione di Amnesty International (sotto il cui patrocinio il film esce), la follia che s’impadronirà anche del suo funerale. «Verrà veramente compreso tra 30, forse 40 anni», si rammarica il corrispondente del New York Times dell’epoca, John Darnton, che Fela avrebbe voluto come ministro dell’Informazione nella sua ipotetica squadra di governo. Lo diceva anche lui, del resto: «La musica è l’arma». Ma poi aggiungeva, «del futuro».