Con il suo tocco delicato e al contempo energico, frutto della commistione di generi e degli studi sia in campo jazz che classico (Debussy il riferimento più evidente), Enrico Pieranunzi attivo dalla metà degli anni ’70 è uno dei più stimati pianisti jazz, apprezzato dalla critica e dal pubblico anche all’estero. Ha suonato con Chet Baker, Lee Konitz, Joey Baker, Charlie Haden, un curriculum da far tremare i polsi. A fine gennaio è uscito My Songbook (Via Veneto Jazz/Jando Music), un album che lo vede nell’insolita veste di autore di canzoni. Non pezzi strumentali ma tutti con un regolare testo.

E per interpretarli ha chiamato una delle più interessanti voci jazz delle ultime generazioni, Simona Severini: «L’ho conosciuta – spiega il musicista romano – cinque anni fa su suggerimento di Franco Fayenz (critico jazz, ndr). Mi portò il suo disco in cui rivisitava il repertorio francese e rimasi colpito dalle sue scelte, insolite per un’artista così giovane. Sulla base di questa reciproca stima e simpatia abbiamo fatto dei live set insieme. Lei proponeva anche brani di Johnny Mandell (The Shadow of your Smile), poi ho cominciato a farle cantare mie composizioni. Nel 2012 per un un album/omaggio jazz a Lucio Dalla abbiamo proposto Futura».

È un disco composito che parte da diversi spunti di ispirazione: «L’idea era infatti quella di sistemare tanti pezzi che avevo scritto nel corso del tempo. Per esempio Where I never was, l’avevo scritto per Norma Winston in un concerto ’archeologico’ del 1993. E poi avevo un bellissimo testo di Jacqueline Risset (Premier moment) musicato tempo prima. Nel 2014 lei è morta ma sono riuscito a fargliela ascoltare, ne è stata felicissima. Una donna, un personaggio immenso, a livello politico, letterario e umano; ho in mente in futuro di musicare altre sue poesie. Ci sono poi anche tracce come Night Bird di cui Chet Baker si innamorò perdutamente a tal punto di inciderla almeno 12 o 13 volte di sua iniziativa. E non solo, la insegnava ad altri trombettisti».

La musica è una medicina dell’anima, pensare a Chet o a Bil Evans, Billie Holiday, minati nel fisico ma sul palcoscenico capaci di performance impensabili: «La musica è curativa, è terapeutica perché è anche molto fisica contrariamente a quanto molti pensano. E questi artisti vi si abbeveravano. Bill Evans diceva che ogni giorno per lui era ’morte e resurrezione’. La sua musicalità era più forte della volontà di autodistruggersi». Nove brani in inglese e due in italiano: «Non mi sono mai posto il problema sul fatto di usare una lingua e un’altra, anche perché il jazz è un termine che ne nasconde migliaia di altri. È un modo, un approccio per cui puoi prendere qualsiasi direzione e quindi vanno bene anche i testi in italiano. Anni fa avevo fatto un interessante esperimento con un tributo a Luigi Tenco».

Tutti parlano dei musicisti italiani e ne sottolineano le grandi qualità, ma la verità è che per sbarcare il lunario quasi tutti hanno dovuto emigrare. Nel cosiddetto belpaese fare jazz sta diventando un’impresa sempre più difficile: «Annotazioni esatte, seppur con eccezioni. Sono stato di recente a Piacenza per un festival organizzato in maniera perfetta. Roma purtroppo sta vivendo una sofferenza estrema in campo sociale, culturale, politico. Dobbiamo fare anche un altro tipo di ragionamento, l’Italia è il paese di Sanremo, dell’opera lirica e nonostante gli enormi talenti sbocciati negli ultimi vent’anni, è chiaro che gli spazi si restringono. Poi storicamente scontiamo venti anni di chiusura totale durante il fascismo, mentre in Francia, Belgio e nei paesi del nord in generale il jazz è parte integrante della cultura e della vita della gente».