Un giorno che Cimabue, suo maestro, era lontano, Giotto si accostò a una delle figure lasciate incompiute dal pittore e vi dipinse sopra una mosca. Questi, una volta rientrato, provò a scacciarla, ma solo dopo ripetuti tentativi s’accorse dell’errore. Chi abbia una buona istruzione classica riconoscerà in questa storia una variante dell’episodio, narrato da Plinio nella Naturalis Historia, del grappolo d’uva che Zeusi avrebbe raffigurato con una tale perfezione da ingannare gli uccelli. Ma se nella leggenda antica tutto il dipinto partecipava della frode, in quella riferita da Vasari l’unica responsabile è la mosca. Piccola com’è, somiglia a un’arguzia o forse, giacché minaccia sottilmente la perfezione illusionistica, a un’impertinenza. Né possiamo stupirci se in quadri come la Santa Caterina d’Alessandria di Crivelli ama poggiarsi sulle cornici architettoniche, dove si gioca la partita prospettica di verità e menzogna.
Ora sulla Musca depicta, e a partire dal famoso saggio di André Chastel (ristampato per l’occasione nel catalogo Franco Maria Ricci assieme agli ottimi contributi di S. Ferino-Pagden, G. Olmi, C. Ossola e L. Tongiorgi Tomasi), si svolge al Labirinto della Masone (Fontanellato, Parma) una mostra, curata accanto alla Ferino-Pagden da E. Rizzardi, che, fino al 30 giugno, ripercorre il tema fin nelle sue più insolite varianti. Sì, perché la mosca in pittura ebbe la propria storia, imprevedibilmente lunga, dopo quella prima manifestazione duecentesca che aveva tutto l’aspetto di una celia da finire lì. Invece l’insetto non si fermò sull’immagine di Cimabue: emigrò assai presto verso climi più freddi, dove pittori come Petrus Christus presero a dipingerla, con quei medesimi intenti virtuosistici di cui parla l’aneddoto vasariano, specie contro l’immacolato candore di sai bianchi, di vesti e di cuffie.
Chastel parla di un anello mancante nella trasmissione di questo motivo all’arte nordica, anello che la curatrice ha riconosciuto nella Madonna dell’Apocalisse dei Vaticani, dove un cadavere purulento ai piedi della Vergine offre di sé pastura a vari animali, fra i quali appunto alcuni ditteri. Si tratta di una pregevole tavola di Giovanni del Biondo, dove l’insetto è riprodotto con sufficiente accuratezza da poter offrire il punto di partenza per le rappresentazioni successive, nelle quali tuttavia, continua Chastel, all’elemento virtuosistico si andrà sempre più accompagnando quello simbolico, cosa che non stupisce in un’epoca che vide la fioritura delle iconologie e dei libri d’emblemi.
Lungo le sale si può seguire con agio tale evoluzione, anche perché molte delle opere esposte – il San Gerolamo nello studio di Joos van Cleve o le nature morte di Balthasar van der Ast e di Giovanna Garzoni – sono le stesse menzionate dal critico francese. Anche la variazione erotica del motivo, cui fa cenno Chastel, è ripresa nella Donna in un paesaggio con una mosca sulla spalla di Van der Mijn (mouche, d’altronde, si chiamava il finto neo che i libertini del Settecento consideravano un esaltatore di sapidità erotica). Ma son poi queste variazioni tanto diverse fra loro? Fra le imbandigioni di fiori e frutti offerte ai sensi, il dittero è lì a ricordarci quanto quei piaceri siano caduchi. Non solo: la mosca contamina la levigata bellezza del San Sebastiano di Benedetto Pagni, e nella copia da Raffaello del Ritratto di giovane uomo insinua l’ombra della morte, assente nel modello. Se infine la pittura vuol essere albertianamente mimesi perfetta, essa ne ribadisce l’inganno e la mistificazione. Di cosa sorprenderci? Il suo signore, il Diavolo, non si presentò forse a Faust come lo spirito che tutto nega?