Dopo quattro giorni di lavori, di cui due alla presenza dei Ministri dell’Ambiente dei Paesi del G20, si è concluso a Napoli il Summit Ambiente, Clima e Energia. Chiusi nelle stanze del Palazzo Reale o connessi dagli uffici lontani decine di migliaia di km, gli sherpa e i rappresentanti delle venti economie più industrializzate non hanno perso occasione per fornire, in questa estate funestata da disastri climatici, l’ennesima dimostrazione di una cecità il cui costo, salatissimo, si calcola in termini di vite umane, diritti e devastazioni ambientali.

FIERI DI AVER APPROVATO GIOVEDÌ una prima intesa sull’ambiente, salutata da Cingolani con tripudio, perchè «per la prima volta il G20 ha riconosciuto l’interconnessione tra clima, ambiente, energia e povertà» – segno che ci si accontenta davvero di poco – la seconda giornata, quella dedicata a clima e energia, è stata segnata dalla distanza delle posizioni sul processo di decarbonizzazione. Alla fine di intense negoziazioni, secondo quanto dichiarato da Cingolani nella conferenza stampa conclusiva, si è riusciti a concertare un documento di intesa generale (il cui testo sarà reso noto soltanto nella giornata di oggi), rinunciando però all’accordo su due questioni fondamentali. I punti chiave infatti, sia il riferimento all’obiettivo degli 1,5°C – da tradurre in un grande sforzo concentrato nel decennio appena iniziato – che la data per il phase out dal carbone sono stati stralciati e la discussione in merito ulteriormente rimandata. Senza questi punti di minima lo sforzo diplomatico assume l’aspetto farsesco di un mero esercizio di stile; dell’ennesima occasione in cui la montagna partorisce il topolino.

LA DISCRASIA TRA PAROLA E AZIONE contraddistingue la governance climatica da oltre trent’anni. Trent’anni ormai persi, nella lotta contro il tempo per arginare la peggior emergenza che abbia mai minacciato i destini di tutti i paesi e i popoli del pianeta. I paesi del G20 rappresentano più dell’80% del Pil mondiale, il 60% della popolazione del pianeta e circa il 75% delle emissioni globali di gas serra. Sono anche, tutti, firmatari dell’Accordo di Parigi, attraverso cui si sono impegnati a contenere il global warming a fine secolo “ben al di sotto dei 2°C”, giurando che avrebbero fatto il possibile per non superare la soglia di +1,5°C, limite da non valicare per scongiurare punti di non ritorno dalla traiettoria ad oggi imprevedibile. Ma tra il dire e il fare ci sono di mezzo enormi interessi economici – difesi in prima linea dalle mayor dell’energia fossile – e l’azione infaticabile dei loro fedeli watchdog: i governi.  In ambito climatico i paesi del G20 sono chiamati a svolgere un ruolo di guida; tuttavia continuano a preferire un’inaccettabile drammaturgia: stracciarsi le vesti con dichiarazioni ufficiali degne di Greta Thumberg mentre rimandano nei fatti ogni azione significativa. Il risultato è che a quasi sei anni dalla sigla dell’Accordo, gli obiettivi di riduzione stabiliti dai singoli Paesi proiettano ancora il futuro del pianeta oltre i +3° al 2100.

NEL FRATTEMPO LA GERMANIA, la provincia di Henan in Cina, ampie zone della Nuova Zelanda, dell’Iran e della Nigeria sono sott’acqua per le inondazioni, il Canada brucia, le estati sono sempre più torride, le stime dei decessi prematuri dovuti a caldo e freddo estremo toccano l’impressionante cifra di 5 milioni l’anno. Per questo, nei giorni del G20 di Napoli movimenti e organizzazioni per la giustizia climatica hanno ribadito l’ipocrisia che emerge dai tavoli negoziali e la necessità di una rivoluzione – economica, energetica, sociale – che non può più attendere. Dalle mobilitazioni che hanno sfilato in una città blindata, all’EcoSocial forum che ha chiamato a raccolta attivisti da tutta Italia e oltre, fino alle azioni di pressione e denuncia indirizzate alla stampa e ai governi riuniti. Tra esse, la lettera aperta diffusa e indirizzata ai Ministri del G20 da una folta rete di realtà europee impegnate a difendere la giustizia climatica anche nei tribunali, trascinando alla sbarra i governi accusati di inazione climatica e di violazione dei diritti umani.

LA LETTERA DENUNCIA l’inadeguatezza delle politiche varate dai paesi riuniti a Napoli, chiede misure radicali e un pacchetto post-pandemia improntato all’azione climatica e avverte che in mancanza di azione adeguata la battaglia continuerà non solo nelle piazze ma anche di fronte ai giudici. Tra le firmatarie vi sono A Sud e Friday for Future italia, tre le realtà promotrici della causa climatica italiana e della Campagna Giudizio Universale, assieme a Urgenda Foundation, Notre Affaire à Tous e Climate Case Ireland (che hanno vinto rispettivamente le storiche cause in Olanda, Francia e Irlanda), all’organizzazione internazionale ClientEarth e ad altre Ong di UK, Irlanda, Repubblica Ceca e Austria.

SE È SICURO CHE LE VAGHE dichiarazioni conclusive rese dai governi al termine del G20 verranno riprese da gran parte dei media e raccontate come “storico” risultato del summit partenopeo – mostrando propensione ad un uso piuttosto leggero dell’aggettivo – altrettanto sicuro è che i movimenti per la giustizia climatica di certo non mangeranno la foglia. Il cammino che porterà all’attesa COP26 di Glasgow di novembre si annuncia pieno di occasioni che – in un modo o nell’altro – rimetteranno il clima al centro. Dall’appuntamento di fine settembre a Milano con la COP giovani e la pre-Cop, al Vertice dei Capi di Stato e di Governo del G20 a Roma a fine ottobre, l’attenzione sarà tutta puntata sulla necessità, irrimandabile, di rispondere con efficacia e urgenza alla sfida del secolo.

L’autrice fa parte di A Sud