Massimo Borghesi è un filosofo che ha posto al centro della sua riflessione teoretica il rapporto tra la politica e la religione. Lo guarda, va detto, da una prospettiva che assume la secolarizzazione come un fattore irreversibile della modernità. Dunque nessuna concezione a una concenzione «sacrale» della politica. Da qui il suo interesse per ciò che comunemente viene chiamato «teologia politica», campo disciplinare dal sapore fortemente accademico, ma che ha sempre interessato, nel Novecento, teorici e intellettuali «eterodossi». È da qui parte l’intervista, alla luce anche dell’uscita del suo volume Critica della teologia politica (Marietti), recensito sempre in queste pagine.

Come spiega il ritorno d’interesse per la teologia politica?

Il motivo è da cercare nel processo di secolarizzazione che accompagna l’era della globalizzazione post-’89 segnata dal primato dell’economico e dalla neutralizzazione del politico. L’esigenza di una rinnovata relazione tra politica e religione corrisponde, soprattutto a sinistra, all’esigenza di trovare un punto di trascendenza che motivi la dimensione solidale necessaria alla democrazia. È la prospettiva di Habermas. In questo caso, però, non siamo di fronte ad una teologia politica ma, ad una teologia della politica. Mentre la prima confonde i piani, la seconda mantiene la relazione nella differenza delle direzioni.

Lei svolge anzitutto una disamina storica per la comprensione del rapporto fra teologia e politica: l’editto di Milano nel 313 di Costantino e quello di Tessalonica di Teodosio nel 380.

Una distinzione fondamentale. L’editto di Milano rientra nel cristianesimo dei primi quattro secoli, quello che richiede libertà religiosa per tutti. Un principio nuovo e rivoluzionario che intaccava alla radice la teologia politica di Roma. Con Teodosio torniamo, invece, al modello del «Sacrum Imperium», divenuto ora cristiano-romano. Dovremmo parlare di «età teodosiana» e non, come usualmente si fa, di «età costantiniana».

Non le sembra allora che nella storia sia stato soprattutto il politico ad essersi appropriato del teologico?

Un’osservazione che trovo corretta. Nella dizione «teologia politica» è l’aggettivo che sussume il sostantivo, non viceversa. È quanto Jan Assmann osservava nella sua critica a Carl Schmitt e alla sua idea che il politico fosse il prodotto della secolarizzazione del teologico. La sfera politica tende a farsi «sacra». In Occidente la teocrazia è l’eccezione mentre il «cesaropapismo» è la norma. Il politico diviene teologico allorché deve unire un popolo contro un altro, o una parte del popolo contro un’altra. La teologia politica è l’ideologia del tempo di guerra.

Contro Schmitt, Erik Peterson insiste sull’idea che proprio il cristianesimo sia incompatibile con la teologia politica. Lei sembra d’accordo con questa tesi.

Il nome di Erik Peterson, che lascia la Germania nazista per l’Italia, dal 1933 al 1960, anno della sua morte, non è molto noto da noi. Eppure è un crocevia di rapporti assolutamente rilevanti. Il suo Monoteismo come problema politico, del 1935, costituisce, a partire da Agostino, una critica frontale al teologo-politico Schmitt divenuto, nel frattempo, il giurista più eminente del III Reich, e ai «Deutsche Christen» affascinati dal Führer. Con Peterson prende forma, per la prima volta nel Novecento, una critica della teologia politica. Il cristianesimo, come dirà poi il teologo Joseph Ratzinger, studioso di Peterson, conosce un ethos politico ma nessuna teologia politica. Il regno di Cesare non è il regno di Dio.

A me pare che Carl Schmitt, più che il politico voglia fondare il giuridico per salvaguardarlo dall’eccezione. Il suo «Führerprinzip» non è forse il tentativo di eliminare lo scarto tra potere carismatico e legale?

Schmitt è ossessionato dal caos: da quello posteriore alla sconfitta della Germania guglielmina, dopo la prima guerra mondiale, e da quello derivato dalla Rivoluzione d’ottobre. L’eccezione è l’elemento metagiuridico e politico che istituisce la norma e, con ciò, blocca il caos. Il principio d’ordine sta, come per Hobbes, in un punto – il sovrano – che si sottrae all’ordine.

Per Tronti e Serra il teologico è trascendente. Non può essere immediatamente politico. Rispetto ai «teocon» che hanno riproposto l’uso civile della teologia, non sono proprio questi due teorici due marxisti i credenti?

Tronti e Serra sono certamente più vicini ad una genuina teologia della politica rispetto a Schmitt o a Marcello Pera. Nel senso che in loro il riferimento teologico è meno strumentale al politico. In questo senso la loro prospettiva è analoga a quella di Habermas. Non si tratta di dar luogo a nuovi intrecci tra sacro e profano, ma di riconoscere che la dimensione religiosa è luogo di senso e di pratiche sociali che una democrazia puramente immanente non può garantire e di cui ha però disperatamente bisogno per non cedere alle pulsioni vitalistiche delle reazioni della nuova destra.

A differenza di Roberto Esposito, per lei è il dualismo cristiano a rompere il legame tra religione e politica. È per questo che la democrazia per Lei comincia con il cristianesimo?

La critica al dualismo che Esposito ripropone anche nel suo ultimo volume è fortemente debitrice del modello decostruzionistico. L’esito, però, è una sorta di naturalismo integrale, radicalmente immanentistico, che risulta in linea con il neopositivismo proprio dell’età della globalizzazione. È ora di pensare ad una critica della critica. Lo spirito critico, come sapeva bene Horkheimer, presuppone un punto di trascendenza. Il cristianesimo, fuori dalle sue deformazioni teologico-politiche, ha rappresentato storicamente questo punto. È un fatto che la democrazia prende forma nel mondo segnato dal cristianesimo.

Da Max Weber a Giorgio Agamben, vi sarebbe un travaso teologico nell’economia prima che nella politica. La teologia, anziché forza frenante, come vorrebbe Cacciari, sarebbe il propulsore del capitalismo e il liquidatore dell’autonomia del politico come sostiene anche Elettra Stimilli in «Ascesi e capitalismo». Che ne pensa?

Di fatto esiste tanto una teologia economica quanto una teologia politica. La teologia economica è la trascrizione illuministica, in chiave secolare, dell’idea di Provvidenza che regola il libero mercato. È l’idea di Adam Smith per cui dalla somma degli egoismi individuali sorgerebbe il bene comune. A quest’idea che guida il liberismo capitalistico si oppone la forza frenante del politico, il katechon teologico-politico di Schmitt, neutralizzato dopo l’89. Dopo il fallimento di Lehman Brothers, nel 2008, il tema politico torna all’ordine del giorno. Il suo riferimento teologico nasce proprio dall’esigenza di trascendere l’orizzonte immanente della globalizzazione.

Secondo lei, dopo l’11 settembre, c’è stata una sostanziale indisponibilità delle autorità religiose ad avallare la crociata per «esportare la democrazia»…

È un fatto che la demitizzazione dell’impianto teologico-politico seguito all’11 settembre, quello teocon opposto e speculare a quello dell’islamismo radicale, è stato operato da un papa. È stato Giovanni Paolo II che si è opposto tenacemente alla guerra americana contro l’Iraq e ha impedito che il conflitto assumesse la forma della crociata, del contrasto tra Occidente cristiano ed Islam. In questa dissociazione tra il teologico ed il politico papa Wojtyla ha seguito il dettato e lo spirito del Concilio Vaticano II. È nel Concilio che la Chiesa abbandona definitivamente, il modello medievalista del «Sacrum Imperium» e torna consapevolmente al paradigma pre-teodosiano della differenza tra Chiesa e Stato, al principio della libertà religiosa per tutti.