Sui fondali del Golfo persico pascolano i dugonghi, grandi mammiferi erbivori dell’ordine Sirenia, da tempo inseriti nella lista rossa Iucn delle specie minacciate di estinzione. Caccia, ferite provocate dalle navi, perdita delle piante marine e degli habitat mettono a repentaglio la loro sopravvivenza. La monarchia degli al Khalifa ha firmato la Convenzione internazionale per la protezione di questi animali, che in Giappone sono diventati un simbolo, nella perenne lotta degli abitanti di Okinawa contro la base militare statunitense.

Ma quale impatto avrebbe sui dugonghi – e sul resto della fauna e flora marine – un pesante afflusso di sub nel parco divertimenti che il ministro dell’industria, del commercio e del turismo del Bahrein ha definito «progetto eco-sostenibile unico»? Un eventuale boom turistico non nuocerà invece di sicuro a un’altra presenza nel mare bahreinita: la V flotta della marina militare statunitense, alla quale nel 2018 si è aggiunta una base navale britannica. La grande presenza di marinai contribuisce al traffico di donne asiatiche destinate alla prostituzione forzata. Mentre il regime chiude entrambi gli occhi, un altro grande gruppo di clienti arriva in Bahrein nei week end dall’Arabia saudita, attraversando il lungo ponte dedicato a re Fahd.

Lo stesso ponte percorsero nel 2011 i carri armati inviati dai paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo (Cgg) per dar manforte al regime che stava reprimendo le proteste di massa iniziate il 14 febbraio. Nel silenzio del mondo, l’operazione «Scudo nel deserto» aggravò il bilancio di civili morti e feriti. Negli stessi mesi, in Libia la Nato e i suoi alleati si precipitavano a fornire il proprio appoggio aereo ai gruppi armati islamisti.

Grazie all’alleanza di ferro con le petromonarchie e con gli Usa, la monarchia degli al Khalifa poté contrastare la rivolta, molto meno mediatizzata di quelle in Egitto e Tunisia. La repressione si è ripetuta durante le proteste degli anni seguenti, provocando altre vittime e moltissimi arresti.

In Bahrein i due terzi della popolazione sono sciiti mentre la famiglia reale è sunnita; nel 2011 l’opposizione fu accusata di «settarismo e interferenze iraniane». Ma, ha ribadito in una recente intervista l’attivista bahreinita per i diritti umani Mariam al Khawaja, figlia di un oppositore condannato all’ergastolo, gli obiettivi di quella rivoluzione unconvenient (non conveniente per i poteri forti mondiali) non erano religiosi, erano politici: l’opposizione sciita e sunnita si erano unite nella richiesta di porre fine a un sistema di privilegi e chiedevano al re di rispettare la promessa fatta anni prima, una monarchia davvero costituzionale. Solo dopo la reazione violenta del regime, l’obiettivo diventò la sua caduta.

Grazie all’indifferenza internazionale e all’impunità, le violazioni sono proseguite. Per finire in carcere basta un tweet contro la guerra in Yemen o sulle condizioni carcerarie spesso inaccettabili, come ha ricordato il Bahrain Center for Human Rights (basato in Danimarca) il 18 luglio celebrando la giornata internazionale dedicata a Nelson Mandela. A gennaio è stato confermato l’ergastolo per «spionaggio» ad Ali Salman, segretario generale di al-Wefaq, il principale gruppo di opposizione del paese. Gli oppositori sono immancabilmente classificati come proxy dell’Iran e membri di organizzazioni paramilitari che intendono defenestrare il regime.

Le monarchie del Golfo sono brave a comprare all’estero consenso e connivenze, con operazioni di immagine fra le quali gli eventi sportivi. Il Bahrein dal 2004 ospita il Gran premio di Formula 1, «un’operazione di sportwashing», ha denunciato Amnesty International in occasione dell’ultima gara, ricordando la drammatica situazione dei diritti umani in un paese dove si sta «portando avanti una campagna sistematica di eliminazione di ogni forma di opposizione politica organizzata».