Palladio, il documentario del regista Giacomo Gatti, che uscirà i prossimi 20-21-22 maggio in 400 sale italiane, inizia con una sequenza dell’Université Libre di Bruxelles, dove l’architetto e docente Gregorio Carboni Maestri introduce ai suoi studenti la figura del più celebre architetto di tutti i tempi. Prosegue poi con i dialoghi dello studioso Lionello Puppi e le immagini di splendide ville palladiane, per arrivare alla Yale University e alle interviste a Kenneth Frampton e Peter Eisenman che raccontano l’influenza su di loro del celebre architetto rinascimentale. Ne parliamo col curatore scientifico del documentario Gregorio Carboni Maestri che insegna progettazione architettonica a Bruxelles, ha collaborato alla creazione degli archivi Kenneth Frampton alla Columbia University e in Italia si è impegnato contro lo spostamento del Memoriale italiano ad Auschwtiz.
« Palladio è un “documentario di tendenza”, esplora le tematiche del presente e del futuro del paesaggio, dell’umanesimo e del progetto di modernità in una visione dialettica e materialista. Con questo documentario proponiamo un itinerario ideale alla scoperta dell’universo antico di Palladio ma al contempo della sua modernissima eredità: ricordiamo che la borsa di Wall Street a New York, la Casa Bianca e il Congresso a Washington sono stati costruiti seguendo le sue indicazioni codificate 450 anni fa. È un documentario storico e biografico, ma anche un film d’arte che parla del mondo contemporaneo».
Come hai incontrato il regista del film?
Conosco Giacomo Gatti dal 2006, quando lavoravo come tirocinante da Renzo Piano. Giacomo era un giovane collaboratore di Ermanno Olmi, che ci ha lasciati, assieme a Lionello Puppi, pochi mesi prima della fine delle riprese. Ermanno e Giacomo avrebbero dovuto testimoniare la distruzione dell’ex Falck di Sesto San Giovanni, progetto che seguiva Renzo Piano ai tempi. Il progetto non è andato avanti ma, da allora, siamo molto amici.
Sembra quasi un film di teoria dell’architettura…
Questa era un’occasione di riflessione su questioni riservate solitamente agli addetti ai lavori. Abbiamo esplorato metodi narrativi complessi con interviste, filmati di vita quotidiana, rigore e una sfida anche dal punto di vista dell’oggetto di analisi. Se in Italia Andrea Palladio è noto (sempre meno), all’estero, tra i non addetti ai lavori (e non solo ahimè), non è raro vedere due punti di domanda negli occhi quando cito il suo nome. Eppure Andrea di Pietro della Gondola è stato, forse, l’architetto dall’influenza più vasta di tutti i tempi.
Come nasce l’idea di questo film?
Quando due anni fa Magnitudo mi ha contattato, per pura coincidenza, stavo usando della Gondola come tema di studio con i miei studenti. Da lì nacque l’idea degli autori di seguirmi come filo conduttore del film. Per questo, oltre ad essere consulente scientifico e co-autore, sono anche personaggio del documentario. Il film mi segue in un viaggio in cui m’interrogo sulla crisi che vive l’insegnamento dell’architettura e l’università di massa. L’idea di usare Palladio come tema annuale del 1° anno, che si conclude a Venezia con un viaggio di 400 studenti, è quasi sovversivo ed è nata con il camarade Pierre E. Fabro, nipote di partigiani friulani e minatori comunisti che insegna con me. Nelle scuole di architettura, a parte le star del contemporaneo e gli «eroi» del Modernismo idealizzato come Le Corbusier e Mies (ma, guarda caso, mai dei Costruttivisti sovietici, della sinistra del Bauhaus, di Hans Meyer), non si guarda ad altro.
Nel contesto che descrivi, quindi, fare un documentario su Palladio, apre contraddizioni.
Ne sono certo. Alla crisi ecologica non è sufficiente rispondere con l’architettura bioclimatica, o con i feticci hipster dell’informale cool. La città e la campagna, oggi, hanno bisogno di una risposta organica, all’altezza di quella che fu, con tutte le sue contraddizioni di classe, quella di Palladio.
In che senso Palladio ha fornito una risposta a un periodo di crisi sistemico?
La sua fu una risposta laica, umanista, di ordine repubblicano e, per quanto al servizio – come quasi sempre in architettura – delle classi dominanti, fu non di meno di caratura simbolica collettiva. Palladio è figlio di una modernità nascente, quella del Cinquecento veneto, usa un linguaggio nuovo per un paesaggio economico e politico dei primi albori del capitalismo e della globalizzazione. Oggi è necessario ricominciare a confrontarsi e dibattere su quale idea di architettura e città vogliamo.
Dunque le enormi prospettive territoriali, la villa agricola, non sono semplici esercizi estetici, ma risposte alla Rivoluzione agricola e politica compiuta dalla Repubblica Serenissima in terra ferma?
È una rivoluzione che razionalizza l’unità produttiva agricola laddove prima avevamo un’accozzaglia tra stalle e fienili, depositi e case dei contadini, in un’unica pianta unitaria. E porta la villa a una dimensione civile e repubblicana, laddove prima vi erano castelli difensivi di un mondo feudale. Una prospettiva che si diffuse poi tra gli inglesi e gli statunitensi. Palladio dava una soluzione architettonica pronta a un mondo nuovo. E faceva tutto questo “incollando” un catalogo “semantico” di elementi architettonici in modo anch’esso moderno e nuovo, perché comprensibile, sistemico della rivoluzione agricola veneziana. La sua è una trasformazione epocale che abolisce a tutti gli effetti il feudalesimo e le sue architetture.
Quali sono i riferimenti del Palladio?
Quelli della Roma repubblicana, grazie ai suoi innumerevoli rilievi effettuati nella Città eterna. In fondo, Palladio non era un enfant prodige come Michelangelo o Leonardo. Era un operaio qualificato dei tempi. Ecco la sua genialità. Ecco perché, oltre alle immagini mozzafiato e momenti di grande emozione, credo sia importante andare a vedere questo film.
Insomma Palladio «inventa» i campi rettilinei e le ville agricole?
Non solo. Crea una vera macchina di produttività e di rivoluzione simbolica dei rapporti sociali mettendo nelle barchesse i contadini accanto al padrone, ad esempio, una cosa impensabile per quei tempi. Costruisce la modernità, il futuro. Il neo-palladianism, copiato da inglesi e statunitensi, lo ritroviamo in case di schiavi liberati o dei discendenti di schiavi in Nord e Centroamerica, in Africa. Penetra, rivisitato e digerito, nel linguaggio dell’architettura rivoluzionaria francese, di quella zarista russa, del neoclassicismo borghese, nel Beaux-Arts, nell’architettura staliniana. È elemento indissociabile, forse più nella ricetta che negli ingredienti, da quello del primo Movimento Moderno, nell’uso del monocromatico di Le Corbu. La colonna di Palladio è già quasi un pilotis, è già sistemico, quasi sistematico. Ancora, si può vedere Palladio nelle opere di Aldo Rossi e anche negli anni Ottanta come modello, ben più esplicito, nel post-modern più reazionario
E ora?
Ora troviamo ancora pezzi di ville palladiane su alcuni grattacieli cinesi o nelle case neoborghesi del Sud America.