Dalla fine dello scorso anno si susseguono le notizie di chiusure di linee e di marchi che si affiancano a quelle delle riorganizzazioni di aziende, mega-brand e gruppi industriali. L’ultimo ad annunciare una chiusura è l’americano Marc Jacobs che, pochi giorni fa, ha dovuto dichiarare la cessazione della sua seconda linea, Marc by Marc Jacobs, nata anni fa come declinazione a basso prezzo della sua main collection Marc Jacobs. Jacobs è l’unica vera icona della moda americana e, fino al 2013, ha retto anche la direzione creativa di Louis Vuitton e il gruppo proprietario, Lvmh, ha anche una quota di partecipazione nella società di Jacobs, aveva promesso un appoggio finanziario per un piano di rilancio della società americana.

Ma la chiusura della linea low price potrebbe anche significare che il piano di rilancio sia stato studiato e sia solo il primo passo verso una totale riorganizzazione del business. Un business che, per lo sviluppo, prevede tagli di rami non redditizi.

Lo scorso settembre, il primo ad annunciare l’abbandono del prêt-à-porter è stato Jean Paul Gaultier, rifugiatosi nei saloni della linea di Haute Couture. A seguirlo, pochi mesi dopo e con la stessa strategia, Viktor and Rolf: non più abiti industriali, solo sartoria. I due casi hanno in comune la dipendenza da un business più grande di quanto potesse procurare l’abbigliamento, ed è quello dei profumi. Gaultier è infatti un marchio di proprietà di Puig, il gruppo spagnolo che detiene anche i marchi Nina Ricci, Carolina Herrera e Paco Rabanne, non a caso nomi tutti legati più ai ricavi delle profumerie che a quelli delle boutique, e che inoltre potrebbe comprare – per oltre 70 milioni di euro – gli altri marchi di profumo Gaultier prodotti finora da Shiseido. Anche il business di Viktor and Rolf in realtà dipende dai ricavi del profumo Flowerbomb, prodotto dal mega potente conglomerato della bellezza L’Oréal. Ma il business dei profumi ha bisogno dello spettacolo della moda ed è per questo che i due marchi si sono concentrati sulla Haute Couture che, anche se si basa su un numero basso di clienti iper ricche, tiene viva l’attenzione dei media mondiali. Si tratta solo dei primi casi, seppur a loro modo particolarmente eclatanti, di una riorganizzazione di tutto il sistema.

Molti analisti sostengono che entro la fine dell’anno saranno molte di più le linee (e i marchi) a chiudere i battenti, anche se non tutti nel modo traumatico con cui il gruppo svizzero Bally, nel suo portafoglio Jimmy Choo e Belstaff, ha dismesso il marchio di accessori extra lusso Zagliani con il preavviso di un giorno soltanto.

Oltre alle chiusure di linee, un altro indice della riorganizzazione arriva dalla sostituzione dei direttori creativi. Dopo l’arrivo di Alessandro Michele da Gucci, da dove è uscita Frida Giannini, Peter Dundas ha lasciato Pucci per andare da Roberto Cavalli nella speranza di risollevare le sorti di un’azienda che ha perso allure e fatturato (la proprietà sta per passare al fondo Clessidra) e il suo posto da Pucci è stato subito occupato da Massimo Giorgetti, un giovane outsider noto per la sua visione pop della moda già con il suo marchio MSGM.
Il balletto delle direzioni creative pare non si fermerà qui. Vedremo in quale modo il 2015, anno che si presenta come il grande trasformatore dopo la crisi, consegnerà la moda all’anno successivo. Nella certezza che la moda, se non è finita con l’addio alle passerelle di Yves Saint Laurent nel 2001, non muore mai. Semmai, questi cambiamenti sono la conferma che la moda è un’industria capace di tenersi stretta l’anima di una fenice che è propria della creatività.

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