Nell’ambiente noto come salone di Giovanni da San Giovanni, al pian terreno dell’appartamento d’estate di Palazzo Pitti, l’attenzione del visitatore è attratta da una delle scene più icastiche del ciclo pittorico sulle glorie di Lorenzo il Magnifico, quella cioè in cui il Medici è circondato dai «suoi» artisti: un’invenzione di Ottavio Vannini sul 1640.
Fra il bel teatro di intelligenze si staglia sulla sinistra la silhouette atticciata di Giuliano da Sangallo (architetto nato nel quinto decennio del Quattrocento, alla cui attività di disegnatore il Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi dedica oggi la prima mostra monografica, fino al 20 agosto), sotto al braccio il lindo progetto per la facciata di Poggio a Caiano, la residenza-tempio immaginata per Lorenzo fra l’ottavo e il nono decennio del quindicesimo secolo.
Nella rarefatta iconografia di Giuliano l’affresco di Vannini si offre come un introibo perfetto per l’esposizione, a poche centinaia di metri dalla Galleria; e tale si consegna per la sua capacità di rapprendere in posa ieratica una serie di luoghi comuni critici e di prevenzioni spettatoriali che l’efficace, elegante rassegna (curata da Dario Donetti, Marzia Faietti e Sabine Frommel) si propone di sfatare.
In primis, il legame identitario fra l’architetto e il suo committente fiorentino, vero e proprio mecenate per l’affermazione di Giuliano sulla scena peninsulare: quel gioco insomma di rispecchiamenti che nell’interpretazione di André Chastel aveva fatto leggere «le raccolte di piani e di rilievi» del Sangallo alla luce «degli scambi e dei rapporti, difficili da chiarire, tra le scienze degli umanisti di Firenze e della cultura dei suoi artisti», secondo una lectio neoplatonica di cui Marsilio Ficino e il Magnifico avrebbero detenuto le chiavi interpretative, segrete ed esoteriche.
Il percorso cronologico prescelto dall’esposizione consente infatti di farsi un’idea complessiva di grande pregnanza del mobile curriculum del Sangallo, gemmato certo dall’humus laurenziano ma confrontatosi poi con le realtà altrettanto stimolanti della Roma pontificia di Giulio II e Leone X, attorno a cantieri di prima importanza come la Basilica di San Pietro. Non solo. Ovviamente avvertito del contesto intellettuale dell’operare di Guliano, il filo concettuale della mostra guarda con cura all’ambiente della sua bottega, un vivaio familiare e intergenerazionale in cui – oltre al fratello Antonio – si trovarono coinvolti in un arco cospicuo di anni eredi e nipoti, avvantaggiati dall’accesso a un medesimo patrimonio di materiali gelosamente custoditi e continuativamente consultati (per essere infine trasmessi, fra Otto e Novecento, all’occhio della connoisseurship e alle indagini filologiche della ricerca storico-artistica). In questo senso utile risulta la presenza di fogli come la proposta per una facciata di chiesa, numero d’inventario 277A (nel quale si era già voluto riconoscere un sapore di Maniera), o l’inclusione del codice donato agli Uffizi nel 1907 ma appartenuto a Henrich von Geymüller, un pioniere delle ricerche sangallesche, il quale lo aveva restituito per primo ad Antonio e a Francesco, rispettivamente fratello e figlio dell’architetto: è proprio nella sostanza del ductus, nella sprezzatura delle acquarellature, nella sfrangiatura dei margini in confronto agli autografi sicuri e saldi di Giuliano (di cui il Gabinetto è ricco, grazie alla smania collezionistica di Giorgio Vasari) che si ritrovano le ragioni evidenti di certe proposte, di una precisa linea critica necessaria alla ridefinizione puntuale del corpus del Sangallo. Per argomenti analoghi, funziona l’annessione al fascicolo dell’architetto del bello studio per un’edicola a tabernacolo (inv. 1669A).
La medesima insistenza sulla natura processuale dei suoi disegni – un caso straordinario, per il Quattro e il Cinquecento, di catalogo grafico architettonico, dotato di una tanto ampia articolazione – è un punto di forza dell’evento fiorentino. Tornando con la mente all’immagine seicentesca del Vannini – in cui l’artista reca con sé la perfetta, immacolata astrazione della facciata di Poggio a Caiano da sottoporre al proprio illustre mandatario – la messa in serie al Gabinetto Disegni e Stampe degli imponenti ‘disegni di dimostrazione’ ivi conservati chiarisce come la loro prassi creativa passasse attraverso fasi successive e flessibili, in relazione con la biografia dell’artista, con le vicende delle singole fabbriche (mirabile – per sapienza espositiva – l’infilata di primi pensieri sull’erigenda San Pietro, in un’invidiosa collaborazione con Bramante) ma pure in rapporto con l’affermazione della figura professionale dell’architetto in quanto ‘autore’.
Così, i fogli agganciati alle rastrelliere della Sala Detti recano tracce delle mani strette ad impugnarli, meditazioni divaganti, segni sovrapposti: soprattutto denotano come le abitudini di Giuliano partissero dall’articolazione in pianta per accedere lentamente all’acquisizione dell’alzato, riversando in entrambi i casi sul candore della pergamena o della carta ripensamenti e varianti, ritorni a distanza di tempo, modifiche di destinazioni e significati iconografici. Una consistenza di piani e superfici che trascina nella storia la figura dell’«artifex» neoplatonico, in favore di un profilo individuato in tutta la sua rilevanza, anche grazie all’indispensabile convocazione agli Uffizi del grandioso modello ligneo per Palazzo Strozzi eseguito da Giuliano attorno al 1490, vero e proprio tour de force di una consuetudine lavorativa sospesa fra artigianato suntuario ed erudizione specialistica.
Del resto, la mostra si avvantaggia dell’inedita fortuna bibliografica arrisa all’architetto nell’ultimo decennio: oltre alla monografia pubblicata dalla Frommel nel 2014 (a colmare il vuoto che dal ’42 non vedeva uscire uno studio incentrato sul solo Giuliano), si sono susseguiti fra Firenze e Vicenza due convegni, il primo dei quali (patrocinato dal Kunsthistorisches Institut in Florenz-Max-Planck-Institut e dal Centro di Studi Andrea Palladio in due tappe, tra settembre 2011 e giugno 2012) ha trovato un’accurata traduzione a stampa proprio in questi giorni, per i torchi di Officina libraria a cura di Amedeo Belluzzi, Caroline Elam e Francesco Paolo Fiore (Giuliano da San Gallo, pp. 456, 64 tavv. in tricromia, 297 ill. bn, euro 45,00). La circostanza è meritoria: nel ponderoso volume infatti, sotto la guida di studiosi riconosciuti, si torna a meditare su aspetti come la produzione scultorea di Giuliano, educatosi da legnaiolo nella Firenze dei fondaci polifunzionali, o sui suoi rapporti con la scena architettonica del Rinascimento italiano, aprendo prospettive e piste di lettura che si integrano alla perfezione con quelle indagate dalla mostra.