Enrico Giovannini veniva dato tra i papabili per il posto di «superministro» della transizione ecologica voluto da Beppe Grillo. Non è andata così, ma avrà comunque la missione di spendere i 32 miliardi che il Recovery plan assegna a infrastrutture e trasporti, quasi la metà dei quali dovranno essere specificamente investiti in mobilità sostenibile.

Dopo gli anni all’Ocse da Chief Statitician e direttore generale e la presidenza dell’Istat dal 2009 al 2013, diventa ministro del lavoro nel governo Letta. Qui viene ricordato per la riforma degli ammortizzatori in deroga e l’introduzione del Sostegno per l’inclusione attiva, una sorta di anticipatore in piccolo del reddito di cittadinanza e dei Rei renziano, pur se limitato nei fondi e nelle capacità di intervento. Secondo i suoi detrattori, è una di quelle figure che si pone al crocevia tra la pubblica amministrazione e il privato sociale, tra i centri pubblici della governance e quelli privati dei think tank. È docente a Tor Vergata ma anche all’ateneo di Confindustria della Luiss, oltre che cofondatore e portavoce dell’Alleanza dello Sviluppo sostenibile, che raccoglie 290 tra associazioni, centri di ricerca privati, università e fondazioni. In questa veste parla di riconversione e resilienza ma anche di «nuovo modello di sviluppo». «Le disuguaglianze mettono a rischio il presente e il futuro delle nostre società» è la motivazione con il quale aderisce al Forum Diseguaglianze diversità promosso da Fabrizio Barca.
Soltanto un paio di mesi fa aveva invitato il governo Conte la necessità ad assumere una «visione a dieci anni» riferendosi al fatto che la Commissione europea, nel Rapporto sulla programmazione strategica e la resilienza, aveva chiarito che quest’ultima va intesa in senso «trasformativo». Da membro della task force convocata da Giuseppe Conte, nell’aprile dell’anno scorso, per pensare quella che allora si definiva «fase 2» della pandemia Giovannini ha spiegato che chi gestisce un’emergenza non può coincidere con chi deve pianificare il futuro.

In questo senso, Giovannini ha più volte teorizzato che i fondi del Recovery non debbano essere investiti nell’illusione di cercare di tornare a prima della crisi pandemica, ma debbano servire a muoversi verso una situazione migliore nell’ottica dell’«Agenda 2030», vale a dire il programma d’azione per le persone, il pianeta e la prosperità sottoscritto nel settembre 2015 dai governi dei 193 paesi delle Nazioni unite che ingloba diciassette obiettivi per lo sviluppo sostenibile. «La resilienza è definita come il ‘nuovo compasso delle politiche europee’ – spiega Giovannini – Dunque bisogna attrezzarsi per fronteggiare le crisi future, a partire dalla crisi climatica». Ciò implica, nel pensiero di Giovannini, la necessità di imparare a gestire «eventi non lineari», che sfuggono alla vista corta degli uomini d’affari ma anche al metro di giudizio canonico della politica.