Si vuole essere valutati per strappare un’oppurtunità di lavoro o la speranza di essere riconosciuti come cittadini. Valutare è anche un esercizio di potere. La coincidenza tra questi desideri, quello di che sceglie volontariamente la servitù e di chi gode nel riconoscerla negli altri, spiega l’irresistibile crescita della valutazione nel mondo neoliberale. Questo strumento di governo delle anime e dei corpi svolge un ruolo strategico nella scuola e nell’università, lì dove tutto inizia con i test Pisa e Invalsi. Sin dalle materne, gli allievi «virtuosi» o «a rischio» vengono addestrati all’idea di «occupabilità», cioè ad essere disponibili sul mercato del lavoro ad una nuova verifica, ad un’altra abilitazione o concorso, per ottenere un contratto ed essere riconosciuti come «cittadini» meritevoli. Questa non è una condizione riservata ai soli studenti. Quella della valutazione è un’utopia che sono ormai in molti a volere applicare all’intera società. Tutta la vita deve trascorrere adattandosi alle condizioni poste da una norma fondamentale: la «meritocrazia».

La valutazione misura e, di conseguenza, giudica la vita degli altri attraverso la certificazione delle competenze e le classifiche di rendimento che attestano la «performatività» di un individuo rispetto agli obiettivi imposti dall’alto. Il benessere di una persona, come quello di una collettività, è dato dalla capacità di produrre «risultati» costanti nel tempo. Come in un campionato di calcio. Oppure in borsa. Il cittadino esiste in virtù del suo curriculum o del portafoglio di titoli che possiede a Singapore. Un ateneo è «virtuoso» se mantiene i conti a posto. Un percentile in meno nelle classifiche stilate dai valutatori ministeriali e il commissariamento, o il fallimento, è alle porte.

Paura, ansia, insicurezza. Queste sono le passioni dominanti nella scuola e nell’università al tempo della valutazione. Questa società non è tuttavia quella orwelliana di 1984, bensì quella che il filosofo francese Gilles Deleuze ha definito una «società dei controlli». È l’individuo a dovere praticare un controllo su se stesso, non è lo Stato ad obbligarlo. Dicono che il premio finale di questa folle corsa sia il benessere personale o quello collettivo. Una prospettiva che non convince la filosofa Angélique Del Rey, allieva del filosofo e psicoanalista franco-argentino Michel Benasayag, in un libro che dovrebbe essere tradotto in italiano, La tyrannie de l’évaluation (La Découverte).La filosofa francese sostiene che la valutazione, intesa come strumento del governo di sé e degli altri, intreccia valori economici con quelli morali e fonda un’etica contraddittoria. Da un lato, si prende cura dell’individuo. Dall’altro lato, gli impedisce di realizzarsi completamente. Questo accade perché la valutazione è sempre al servizio dei manager, della burocrazia e, in fondo, della politica. Questo è l’esito della valutazione «oggettiva» degli atenei stilata dall’agenzia nazionale della ricerca universitaria (Anvur). La decisione finale sull’erogazione dei fondi agli atenei in base alla scelta della classifica migliore perché ne esistono diverse, spetta al ministro in carica. La valutazione non èmai «oggettiva». Si fonda su un decisionismo politico mascherato, ma fortissimo. Il suo obiettivo è controllare la flessibilità dei lavoratori (precari o disoccupati), governare la precarizzazione psicologica ed economica degli individui, vincolandoli al rispetto delle «buone pratiche» nella società dell’«apprendimento permanente». Chi accetta di essere valutato strappa l’illusione di partecipare ad un grande gioco di società, ma il prerzzo per ottenere il riconoscimento del sospirato «merito» è altissimo: bisogna accettare di essere servi volontari di un imperativo economico.

Nell’università italiana sta crescendo il dissenso rispetto a questo progetto sociale. Si spiega anche così il successo del magazine Roars.it (5 milioni di visite in due anni). L’opposizione al neoliberismo accademico, basata sulla valutazione delle discipline e dei saperi di tipo meramente quantitativo e burocratico, è stata formulata nel fortunato libro di Valeria Pinto Valutare e Punire (Cronopio, 2012) ed è stata ripresa più di recente da Carmelo Albanese ne Il feticcio della meritocrazia (Manifestolibri), un affondo contro la meritocrazia, canonizzata dall’ex manager McKinsey Roger Abravanel e alimentata dagli economisti bocconiani sui maggiori quotidiani italiani dal 2008, quando è iniziato il percorso della riforma Gelmini.

L’opposizione alle metodologie dell’Anvur è cresciuta anche nei settori tradizionali dell’accademia. Il filosofo e accademico dei Lincei Tullio Gregory è più volte intervenuto sulle colonne de Il Manifesto. Le sue critiche sono state riprese anche dall’Appello per le scienze umane pubblicato da Alberto Asor Rosa, Roberto Esposito e Ernesto Galli Della Loggia sulla rivista Il Mulino (6/2013). Questi studiosi denunciano la valutazione «come marketing aziendale», il merito «come prestazione in vista di un utile» e la «tecnicizzazione dell’insegnamento» a causa dell’uso di test e quiz o di una «lingua neutra» come l’inglese. I criteri della valutazione «equiparano assurdamente le facoltà umanistiche a quelle scientifiche» e considerano un «prodotto» tanto i brevetti quanto i saggi di storia, letteratura o filosofia. Ciò penalizza la cultura umanistica – identificata con la «tradizione italiana» letteraria e politica da Dante a Machiavelli o Leopardi – al punto di minacciarne la sopravvivenza. Nel mondo anglosassone, come in Francia o in Germania, la critica alla meritocrazia, rappresenta una casamatta del pensiero ispirato alla critica della «governamentalità neoliberale» di Michel Foucault. In quest’ottica va inserita la pubblicazione dell’ultimo numero di Aut Aut (All’indice) che presentiamo in questa pagina, come del numero 358 su «La scuola impossibile». La decostruzione della valutazione mira ad un modello di conoscenza non riconducibile ad una razionalità linearmente prevedibile. I saperi dovrebbero aprirsi alle molteplici dimensioni della vita e della società, quindi ad una realtà basata sul conflitto e non all’imposizione dello standard tecnico-economico della meritocrazia.