Mario Messinis ci ha lasciati che aveva ottantotto anni, ma la sua intelligenza, la curiosità intellettuale era rimasta la stessa di quando aveva vent’anni. Nel 1961, dunque a ventinove anni, seguì con entusiasmo la messa in scena di Intolleranza 1960 di Luigi Nono. Il libretto fu scritto dallo stesso Nono, a partire da un’idea di Angelo Maria Ripellino, usando documenti storici e testi poetici di Julius Fucík (Reportage unter dem Strang geschrieben), La question di Henri Alleg e l’introduzione di Jean-Paul Sartre, La liberté di Paul Éluard, La nostra marcia di Vladimir Majakovskij e Alla posterità di Bertolt Brecht. La regia fu di Vaclav Kaslik; i costumi e le scene di Emilio Vedova; l’allestimento tecnico era affidato a Josef Svoboda, che sarebbe stato il grande scenografo e regista dello straordinario Divadlo Za Branou (teatro dietro la porta) di Praga, fondato nel 1965 da Otomar Krejca.

L’opera è dedicata ad Arnold Schönberg. Era il 13 aprile 1961. Fu una serata tempestosa. Proteste a non finire, soprattutto dal loggione del teatro. E grida: «Vogliamo musica!». Ma non fu un fiasco. Fu anzi un successo internazionale di critica e di pubblico. La protesta veneziana era guidata, manovrata, guarda caso, dalle destre, contrarie allora, come oggi, sia all’avanguardia artistica sia alle posizioni di una sinistra radicale: le parole di Fucik, di Sartre, di Brecht scandalizzavano più della musica di Nono. L’amicizia di Messinis con Nono rimarrà l’amicizia di una vita. Ma il dato fondamentale da cogliere è un altro: quello spettacolo riuniva in una sola voce le avanguardie letterarie, musicali, teatrali, politiche di Europa.

Mario Messinis aveva scelto il suo campo di azione: la nuova musica, la nuova letteratura, la nuova pittura, l’impegno politico. Critico musicale del quotidiano Il Gazzettino, sostenne fino alla fine questa impostazione, ma non fu un critico settario: fu un critico aperto al nuovo, da qualunque parte venisse. Anche dalla Cina: come dimostra una Biennale Musica da lui diretta e dedicata appunto alla nuova musica cinese. Guidò la Biennale dal 1979 al 1989 e poi dal 1992 al 1996. Anni fervidi, in cui davvero la rassegna veneziana fu uno specchio che ci restituiva l’immagine musicale del mondo.

Si può seguire la sua attività di critico musicale nella raccolta dei suoi articoli, dal 1965 al 2002, dal titolo Ah, Les Beaux Jours (titolo che non a caso cita Beckett, drammaturgo d’avanguardia), a cura di Paolo Pinamonti e pubblicata da Olshki nel 2002 come omaggio ai suoi settant’anni. Sinopoli, Nono, Varèse, Petrassi, Schnittke, Malipiero, Ligeti, Maderna, Togni, Henze, sono i compositori sui quali possiamo leggere, in queste pagine, le riflessioni di Messinis.

Lo stesso entusiasmo, la stessa apertura al nuovo fu dedicato all’insegnamento, nel Conservatorio Benedetto Marcello di Venezia, di cui poi fu anche il direttore della Biblioteca, e all’insegnamento universitario nello Iuav, Università di Venezia. La Rai aveva in quegli anni quattro orchestre. Messinis fu direttore artistico dal 1989 al 1994 dell’orchestra milanese. E del Festival bolognese per ventisette anni, dal 1992 al 2019.

In quell’ambito ha curato la rassegna «Eco e Narciso» del 1988, in collaborazione con la Rai, la Repubblica e Casa Ricordi, che ha visto coinvolte sei diverse città italiane. La musica che si rispecchia in sé stessa e rispecchiandosi rispecchia il mondo: quella di oggi, naturalmente. Ma anche quella del passato, anche, per così dire, le avanguardie del passato, ormai storica la posizione di uno Schönberg, di uno Stravinskij, e – perché no? – dei contrappuntisti fiamminghi, di Beethoven.

Qui tocchiamo il nodo del rapporto che Mario Messinis intrattenne con la musica. La curiosità per le avanguardie, per la nuova musica, anche quella, più recente, che si oppone alle avanguardie storiche, le ribalta o suppone di ribaltarle, non gli fa trascurare la musica del passato, ma anzi gliela fa leggere e ascoltare con l’orecchio di oggi. Beethoven, al suo tempo, non è un classico, ma l’avanguardia. E così Rossini, una sua passione. Mario Messinis aveva fatto suo, come pochi altri, un aureo aforisma di Karl Kraus: «Ho una notizia catastrofica per tutti i nostalgici e gli esteti conservatori: un tempo la vecchia Vienna era nuova».