«Medici-eroi. I nuovi eroi d’Europa. Gli eroi del coronavirus. Eroi in tempo di coronavirus. L’Italia ringrazia gli eroi del coronavirus. Immortalati gli eroi del coronavirus. Gli eroi del Covid Hospital. I veri eroi della lotta contro il coronavirus. Lode agli eroi del coronavirus. Premio agli eroi del coronavirus. Una cassiera tra gli eroi del coronavirus. I veri eroi sono medici e infermieri. Fatti ed eroi della pandemia. Il medico eroe non ce l’ha fatta. Un monumento ai caduti e agli eroi del coronavirus». Potrei riempire tutto questo spazio con titoli e proclami del genere che ho preso a caso fra una miriade, ma non volendo provocarvi un collasso da zuccheri, mi fermo qui. Pendant di termini guerreschi tanto amati soprattutto dal presidente francese Emmanuel Macron, cognome in pericolosa assonanza con macaron, mai la parola eroe fu tanto abusata come in questo periodo. Opterei per una maggiore sobrietà.
Innanzi tutto, se proprio si vuole ricorrere a quel titolo mitizzante, si cominci a declinarlo anche al femminile visto che negli ospedali sono soprattutto le donne a farsi carico del lavoro di cura e assistenza ai malati essendo le infermiere il 78% della categoria. Ci sono poi le dottoresse e le ricercatrici, spesso precarie e pagate meno dei colleghi maschi, ma non per questo meno brave, come dimostrano i risultati ottenuti.

È STATA un’anestesista di Codogno a insistere che al paziente 1 fosse fatto il tampone. Sono state tre ricercatrici dello Spallanzani di Roma a isolare per prime il coronavirus in Italia.
C’è poi l’abuso del termine. L’eroe è una figura complessa che nella storia e nelle culture ha ricoperto significati e ruoli diversi. Ci sono gli eroi dei miti cosmogonici e storici vicini allo stato divino, quelli come Prometeo che instaurano un conflitto con la divinità, gli eroi epici e tragici che non sovvertono le leggi ma espiano i loro peccati affrontando prove estreme (Eracle), quelli condannati alla solitudine e a scontri mortali davanti a un pubblico che li guarda (Patroclo ed Ettore, Ettore e Achille). Ci sono gli anti eroi che infrangono le leggi sociali quali Edipo e Don Giovanni, gli eroi di un giorno celati dietro una maschera che simboleggia un organo collettivo (Pulcinella, Arlecchino, Pierrot), quelli contemporanei del romanzo, del fumetto e del cinema. Tutti, in maniera e intensità diversa, si misurano col rischio della morte e la necessità dell’azione. Così sublimano paure e desideri umani e incarnano un simbolico.

ASSEGNANDO a medici e infermieri l’immagine degli eroi, non solo si consegna loro il compito di salvarci, ma implicitamente anche quello di sacrificarsi, se necessario, per la collettività, la stessa che magari, quando tutto sarà finito, si dimenticherà delle loro condizioni di lavoro e di stipendio, dei tagli che la sanità ha subito negli ultimi decenni, della carenza di personale e posti letto, della chiusura di tanti ospedali perché bisogna risparmiare. Molte/i operatori sanitari hanno rifiutato di essere definiti eroici dicendo: «Non siamo eroi. Facciamo il nostro mestiere e vorremmo che ci si ricordasse di noi, e concretamente, anche quando l’emergenza sarà finita». In questo sacrosanto e condivisibile rifiuto c’è la richiesta di essere considerati per quello che sono, persone come tante che hanno scelto un lavoro e non una missione per la quale si è disposti a morire.
Paragonarli a figure mitologiche disposte a gesti eccezionali non solo è mielosa retorica, ma sottintende l’ipocrita idea che, per salvare se stessi, è giusto che altri si immolino.

mariangela.mianiti@gmail.com