Il 4 febbraio ho lanciato una petizione, già sottoscritta da quasi 20.000 persone, contro l’ennesima deriva del politicamente corretto: l’adozione dello schwa, una vocale neutra, come antidoto indottrinante al binarismo di genere. L’iniziativa è nata dalla pubblicazione di un mio post su Facebook (25 gennaio), quando, sollecitato dallo storico Angelo d’Orsi, non esitai – da linguista militante – nel dichiararmi d’accordo con lui sulla necessità di fare qualcosa contro una neolingua i cui seguaci, animati all’apparenza dalle migliori intenzioni, vorrebbero mettere il bavaglio a chiunque osi contraddirli.

Qualche giorno dopo quel 25 gennaio sarebbe spuntato dalla Rete un documento, il primo di sei verbali redatti dai cinque membri di una Commissione per l’Abilitazione Scientifica Nazionale alle funzioni di professore universitario di prima e seconda fascia del Settore concorsuale 13/B3 – Organizzazione Aziendale. In tutti e sei gli atti compaiono esempi, nei giudizi collegiali formulati sui partecipanti al concorso e in quelli stilati singolarmente dal Presidente e dal Segretario (e, in un solo caso, nel giudizio individuale su un candidato di un terzo membro della Commissione), di schwa semplice (ǝ) e di schwa “lungo” (з), quest’ultimo con la funzione di esprimere il plurale.

Nei sei verbali i cinque sprovveduti Commissari, che non sanno nemmeno cosa scrivono (non sono stati capaci di applicare con coerenza e sistematicità le loro regole “schwaiste”), hanno usato lo schwa e lo schwa “lungo” in modo indiscriminato, sia in riferimento ai membri della Commissione sia in riferimento ai candidati e alle candidate, come se fossero tutti portatori di identità non binarie.

Una deriva, spacciata per anelito d’inclusività da una minoranza di linguisti – coi loro rumorosi fiancheggiatori – vorrebbe riformare la lingua italiana a suon di e rovesciate.

Intanto l’Accademia della Crusca lo schwa però l’ha censurato; la Real Academia Española ha bandito la chiocciolina e altri mediatori posticci, una x o una e (todxs o todes, per todos ‘tutti’ e todas ‘tutte’); il Ministro dell’Istruzione francese, Jean-Michel Blanquer, ha inviato una circolare ai direttori amministrativi centrali, ai provveditori agli studi e al personale ministeriale (4 maggio 2021) per vietare forme inclusive colpevoli, specie ai danni di allievi dislessici, di rendere più difficoltosa la lettura dell’idioma nazionale.

Un conto è soddisfare legittime esigenze di riconoscibilità sociale, venendo incontro ai portatori di identità incerte o fluttuanti con le forme e le parole più adatte, un altro è pretendere che le norme linguistiche di un’intera comunità nazionale soggiacciano alla prepotenza di pochi, intenzionati a scardinarle con la generalizzazione di usi teratologici. Come gli inammissibili direttorə o pittorə, autorə o lettorə, le forme inclusive di direttore, pittore, autore, elettore: se s’imponessero spedirebbero in soffitta direttrice, pittrice, autrice, lettrice, consolidati femminili di nomi di professione.

Un gruppo di (socio)linguisti vorrebbe traghettare nella norma certi fonemi dialettali, consiglia di prendere esempio dalle vocali neutre dell’inglese, diffonde in rete lo schwa ruffiano in acustici specchietti per le allodole con la scusa della sperimentazione. Ignari del funzionamento di una lingua, o fingendo di esserne all’oscuro (il prezzo da pagare, se vuoi continuare a cavalcare l’onda), gli schwaisti, nel pronunciare l’impossibile suono mezzano, sortiscono gli effetti di un’esilarante comicità involontaria: ti sembra di sentir parlare Lino Banfi dei tempi della commedia all’italiana o Felice La Pezza (per gli amici Tirzan), il camionista pugliese tifoso juventino impersonato da Diego Abatantuono.

Con l’importazione degli schwa, in un testo “codificato” (libro, documento o pezzo giornalistico), la comicità scende di livello. Impatta nella demenzialità linguistica, nelle associazioni ortografiche a delinquere. Possiamo scherzarci su, ma guai a non prenderle sul serio.

 

* Il contributo è parte di un dibattito che si è tenuto sulle pagine del manifesto. Qui di seguito gli altri interventi sul tema.

Si chiama «schwa» e serve a indicare corpi e storie, Silvia Nugara

Scrivere all’università. La sfida della differenza, Laura Fortini

Parole contro la paura. Intervista a Vera Gheno, Viriginia Tonfoni