Chitarrista, scrittore, co-fondatore degli storici CCCP e C.S.I., Massimo Zamboni torna sul mercato discografico a due anni di distanza da La macchia mongolica. Album strumentale e contemplativo che lo ha riportato sulle geografie dei ricordi che ispirarono il leggendario album dei C.S.I. Tabula rasa elettrificata. Oggi, le coordinate temporali (e musicali) restituiscono Zamboni obbligatoriamente al presente con La mia patria attuale, disco uscito lo scorso 21 gennaio e che segna un detour compositivo dove la voce diventa per la prima volta la pietra angolare della forma canzone. Prodotto da Alessandro «Asso» Stefana, qui in veste anche di polistrumentista (chitarre, bouzouki, pianoforte, mellotron e organo), l’album si compone di dieci tracce orgogliosamente «italiane»; prive di quelle influenze multietniche da sempre hanno ispirato il suo universo sonoro. Scelta che, anche dal titolo, certifica il bisogno di una riflessione autoriale sullo stato di salute di un Paese che ha inquinato il termine «Patria» con la propaganda e il populismo.

«PATRIA non è parola leggera» ha dichiarato Zamboni «Contiene in sé anche il mascheramento delle diseguaglianze, l’esercizio della violenza in difesa di interessi personali o di casta. Ma Patria è ciò che abbiamo, che siamo, presenza immateriale che giustifica l’essenza profonda dei popoli. Perché allora è così difficile pronunciare questa parola per la lingua italiana? A questa domanda sono dedicate le dieci canzoni dell’album». Aperto dalla ritmata ballad apocalittica Canto degli sciagurati, che ricorda brani dei C.S.I. come A tratti e Palpitazione tenue, il disco spazia dal folk cantautorale di matrice gucciniana, come nella sognante Tira ovunque un’aria sconsolata, agli archi avvolgenti di Fermamente Collettivamente dove Zamboni, come una preghiera laica, canta «Conviene compagni tornare a temere/Le croci uncinate, le scure galere/Le spade sguainate, le strofe guerriere/Le mani annodate alle lunghe candele».

A CONCLUSIONE, ci si addentra nei territori della «spoken word» con Il modo emiliano di portare il pianto, quasi un recitativo su base ambient che ricorda i Massimo Volume e dove Zamboni compone una sorta di orazione funebre sulle macerie di un mondo – è stata composta dopo il terremoto a Reggio – che trova nello sguardo dei bambini, o degli anziani, la chiave per definire la sostanziale ciclicità del mondo.