Il Conservatorio “Rossini” di Pesaro sta in Piazza Olivieri, in pieno centro storico, in un imponente edificio settecentesco dalla facciata color ocra. Prima, venendo dalla stazione, entrati nel cuore della piccola città, comincia il passeggio mattutino di signori e signore eleganti, e altri che filano in bicicletta zigzagando, le vetrine dei negozi ammiccanti, il teatrino della provincia vera, marchigiana e italiana.

Il laboratorio di musica sperimentale invece si raggiunge salendo i tre piani di scale, e ancora proseguendo lungo un corridoio vuoto, così mi ha detto la bidella corpulenta una volta arrivato in cima pregandomi di seguirla, sul lato sinistro porte laccate di bianco, inviolabili, da dove arrivano suoni di sassofono, trombe, rolli improvvisi di percussioni che scuotono. Alla fine, quando la donna spalanca l’ultima porta dopo un lungo e labirintico camminamento, David Monacchi sta al buio dentro l’ultima stanza in fondo, lo Space, quando esce fuori e si materializza ha capelli lunghi castani, barba folta e occhialini ovali con la montatura di metallo. È un musicista, compositore, ma ha l’aria seria dello scienziato, e centellina le parole che pronuncia a bassa voce nell’aula, mentre prendo appunti e ascolto la sua storia. L’idea di registrare i suoni della natura gli è venuta nel 1990. «La musica non è solo quella fatta con gli strumenti», mi spiega, «musica, direbbe Edgard Varèse, è suono organizzato». Stiamo uno di fronte all’altro, adesso, lui in cattedra che continua il suo racconto, io nella mia sedia rigida in ascolto. Sono gli anni giovani e pieni di passione che lo vedono studente al Conservatorio, quando inizia ad acquistare i primi registratori digitali pioneristici, spendendo tutti i soldi che possedeva. «Passavo la notte a raccogliere i suoni dell’Appennino», dice con orgoglio e una punta di commozione, «la notte è il momento migliore perché non c’è il rumore umano, la primavera poi era sempre di lavoro costante». Andava a fare quelli che chiama in modo molto suggestivo «ritratti sonori», senza suoni antropici, e mentre parla mi vengono in mente i quadri animati di Brian Eno, i Light Music, che vidi e ascoltai a Londra al Barbican Centre in quegli anni che lui iniziò questa avventura nei paesaggi delle Cesane o a Canavaccio, nei dintorni di Urbino, le terre dove nacquero le prime poesie di Paolo Volponi, «nella riserva del Furlo» dice ancora, «o a Borgo Pace, e poi sui Sibillini». In quegli anni non sa di preciso perché è spinto a fare quelle registrazioni, solo sente un richiamo particolare, e allora va nei boschi, in riva agli stagni, come nei luoghi persi delle campagne in solitaria a registrare suoni.

Nel 1998 vince una borsa di studio per andare a studiare a Vancouver alla Simon Fraser University, dove ha insegnato anche Raymond Murray Schafer, compositore canadese teorico dell’ecologia acustica e autore di un testo fondamentale, Il paesaggio sonoro, inventore della soundscape composition, una composizione in grado di creare un ritratto sonoro in un ambiente acustico. È la svolta. Tornato da Vancouver, Monacchi inizia a concepire quelli che poi ha chiamato Fragments of Extinction – Acoustic Biodiversity of the World’s Primary Equatorial Rainforests, un’opera aperta che dura da più di vent’anni, e che ha elaborato nelle foreste di Amazzonia, Africa e Borneo, utilizzando tecnologie microfoniche sperimentali in 3D. «In questo progetto c’è poca creatività», continua a dire, seduto sulla cattedra, parlando piano e in modo preciso, per paura di essere frainteso, «non ha senso elaborare ciò che è già perfetto, organizzato e in equilibrio. L’artista mette solo la cornice», conclude. Anche se tutto questo in un musicista crea una frustrazione, ammette, quando definisco la sua anche un’operazione concettuale, «dovevo intervenire il meno possibile», mi spiega, «c’è chi crea la musica e chi la cerca in natura», questa è la differenza. «Sono tornato da Vancouver e ho sentito una crisi del modello tradizionale, lavoravo per la videoarte, per il cinema, il teatro, ho mollato tutto, e da quel momento mi sono dedicato interamente a questo progetto», Sempre in quel periodo, lui che è associato a Greenpeace, gli capita di leggere un articolo sulla «Sesta estinzione di massa», che analizzava l’attuale grave crisi della biodiversità provocata dall’uomo collegandola con quella precedente di 65 milioni di anni fa, che ha causato la scomparsa, tra l’altro, dei dinosauri, «in quel momento ho capito che dovevo trovare un modo per utilizzare le conoscenze del suono al servizio dell’etica ambientale», dice deciso David. La prima spedizione la fa in Amazzonia nell’area del Rio Branco con Greenpeace, a venti ore di barca da Manaus. L’idea di partenza è che se riesci comunque a fare ritratti sonori nell’Appennino marchigiano, un luogo antropizzato da almeno 3000 anni, dove non c’è più foresta primaria, in quella amazzonica dove c’è una biodiversità cento, mille volte più alta chissà cosa potrà succedere. «Trovo l’Eldorado sonoro!» Dice enfatico di quella prima scoperta, «il paradiso acustico della biodiversità. La prima volta che accendo i microfoni, sto alcune ore ad ascoltare e sento una vera e propria polifonia biologica». Per fare le sue registrazioni usa quella che definisce una «tecnologia conservativa», suono tridimensionale, in grado di tener conto degli aspetti spaziali di un ecosistema. «Il problema», mi spiega in un modo poco cattedratico, cercando invece di essere il più concreto possibile,«è che ci sono individui di specie diverse che emettono i loro segnali sonori dallo spazio tridimensionale della foresta, quindi poter raccogliere l’informazione acustica è un fattore che determina la possibilità di riprodurla con un sistema immersivo». L’ultima volta per cogliere questa complessità ha usato in Ecuador 38 microfoni diversi, strumenti che riescono a recepire le distanze, «quando siamo in una foresta è importante conoscere lo spazio», cerca di spiegarmi.

QUANDO ENTRIAMO NELLO SPACE, che prende quel nome da Soundscape Projection Ambisonic Control Engine, mi mostra alcuni documenti sui tre pc sistemati sul tavolo, intorno piccole sedie nere di metallo in due cerchi. È il primo laboratorio in Italia di questo tipo, realizzato per educare una nuova generazione di studenti allo studio del suono tridimensionale, un altro teatro eco acustico per il grande pubblico (120 posti) è stato invece costruito da Monacchi in Danimarca, in un museo di storia e scienza naturale.

In Amazzonia è tornato in quella ecuadoriana, nei dintorni di Quito, diciamo, ma non proprio vicinissimo, «un giorno di macchina, diverse ore di canoa, diverse ore di cammino» nella regione di Yasunì, il luogo che secondo gli esperti ha la più alta biodiversibilità del pianeta ma dove le compagnie petrolifere Perenco e Repsol, grazie a una concessione del governo, estraggono il greggio a ridosso della zona intangibile dove vivono i popoli incontattati, e dove Tagaeri e Teromenane, poche centinaia di indios, cercano di difendersi dai loro attacchi e dalla possibilità concreta di contrarre malattie mortali.

Oltre al lavoro sul campo, Fragments of Extinction prevede l’analisi dei dati fatta con ecologi e biologi, delle «nicchie acustiche», spettrogrammi azzurri che vedo sfilare sullo schermo del pc, capaci di individuare le diverse specie di animali, «poi c’è una parte artistica, la composizione e post produzione, e l’installazione nei musei e spazi pubblici attraverso il teatro eco acustico», dice ancora Monacchi, spostando il mouse e cliccando su icone di immagini che lo ritraggono con le cuffie calcate in testa dentro la foresta, in mano gli strumenti. A volte nei dintorni ci sono degli elefanti, «in Africa non si può stare fuori la notte», mi spiega. «Sono rimasti in pochi, sanno che l’uomo è un pericolo e lo attaccano». Allora i sistemi di registrazione vengono piazzati in alto, sugli alberi, a varie altezze.

Quando mi siedo in una delle piccole sedie in metallo, David mi mostra un punto nello spazio al centro indicandolo con la mano, lì convergono, equidistanti, tutti i 21 altoparlanti. E quando fa partire la registrazione siamo già al buio, ma chiudo lo stesso gli occhi, distendendo le gambe. Ho attraversato anch’io spazi di foresta amazzonica in Perù, Brasile, Venezuela, c’è sempre qualcosa di ancestrale che risveglia i sensi in quei posti, sviluppa fortemente quelli smorzati dall’urbanizzazione e dalle tecnologie, dall’inquinamento acustico. Adesso sento il baccano provocato dalle scimmie che si muovono sopra di me, di specie Lophocebus albigena e Cercocebus agilis, la registrazione è stata effettuata a Dzanga-Sangha in un’area di foresta primaria nella parte nord-ovest del bacino del Congo. Le sento spostarsi pesanti nell’intrico di rami di un albero che percepisco col corpo, gettano in terra e lontano i frutti, facendo dei versi, e riescono a scuotermi, il cuore comincia a battere forte come se ci fossero davvero e ne percepissi l’azione, la presenza reale, sopra di me, di quelle bestie furiose che continuano a spostarsi e a saltare da una parte all’altra instancabili.