Esistono quelle commediacce francesi, che comunque spesso son fatte meglio di quelle italiane, che seppur trite e ritrite per una ragione o un’altra ti acchiappano: in questo caso la ragione ha il nome della mia infanzia, un nome che era tutto un programma, un nome una certezza: Sophie Marceau. Sophie, per noi adolescenti quasi sue coetanee, era Vic: Vic la ingenua innamorata dell’amore, la stra-bella pure con addosso la t-shirt bianca della scena finale del film (forse però era ne «Il tempo delle mele 2», medesima regia di Claude Pinoteau), colei che faceva ridere sognare invaghire milioni di teenager europei solo dopo pochi fotogrammi.

Che abbia poi preso una deriva folle è provato dal suo lungo legame matrimoniale con Andrej Zulawski, regista di film come «Possession» (1981), «Femme publique» (1984), «L’amour braque» (1985) – lei diciannovenne lui quarantacinquenne – con cui ha generato il suo primogenito Vincent (1995), sulla cui relazione, al termine, ha esordito alla regia («Parlami d’amore», 2002), accanto al quale è cresciuta negli anni fondamentali di una donna. E dopo la rottura dal Pigmalione la rinascita americana: Principessa Isabella di Francia con Costner in «Braveheart» (1995), temibile antagonista di James Bond in «Il mondo non basta mai» (1999): personaggi nati ognuno dalle ceneri del precedente. Fino ad arrivare all’oggi, splendida quarantenne navigata pronta a offrirsi alla commedia francese come suffragetta del ruolo di donna madre lavoratrice così anni duemiladieci.

La continuo ad amare. Quasi in ogni cosa che fa. Controllo le sue rughe, le confronto con le mie, con il lanternino esploro i suoi zigomi alla ricerca di tracce di immobilità botoxiana: non me ne importerebbe, se non arriva a sfigurarsi per me va bene tutto. Ed è sempre bellissima, gambe affusolate e interminabili, sorriso bianco come a quattordici anni, smorfiette francesi comprendenti fossette linguacce sopracciglia stupite. Avrà avuto, durante tutti questi anni di carriera, l’incubo costante di uscire dal ruolo con cui ha esordito: impossibile.

Sfido chiunque a citare cinque pellicole che Sophie ha girato negli ultimi trent’anni: io stessa, fan dalla prima ora, non ci riuscirei. Ma accetto la cosa col sorriso sulle labbra, ebbra tutt’ora di ogni battuta di Vic Beretton, ogni suo tormento, ogni turbamento amoroso (memorabile l’attrazione per il bel tenebroso venticinquenne Lambert Wilson, che allora mascherava ancora bene la lampante omosessualità), ogni lacrima e ogni lento ballato avvinghiata a un molle tredicenne brufoloso.
Che poi «La boum» (1980), tradotto malamente come «Il tempo delle mele», fosse un buon film, con una solida sceneggiatura sul doppio registro adulti-ragazzini, sostenuto da professionisti di bravura consolidata come Brigitte Fossey e Claude Brasseur, non è superfluo ricordare.
Gli anni Ottanta sono stati anni bui per mille motivi. Ma la presenza di Sophie Marceau ha portato luce nel lungo tunnel della discordia adolescenziale verso tutto e tutti. E per questo non smetterò di ringraziarla.

 

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