«Renzi ha fatto un passo indietro. Ed è un passo indietro che gli costa. Ha riconosciuto che il parlamento deve avere un ruolo quando si dà una delega. Ha riconosciuto che la commissione farà emendamenti. È un cambio di rotta: fino a qui ha sempre fatto sapere che avrebbe messo la fiducia sul testo del senato. Ora ha capito che una parte significativa del Pd non avrebbe condiviso». Per Stefano Fassina, dopo giorni di polemiche, è la giornata delle mezze soddisfazioni. Mezze, proprio come mezze sono le aperture del governo sul jobs act. Di «correzioni cosmetiche» del resto il premier aveva parlato ai suoi già nelle ore in cui lo scontro interno sembrava avviato verso la frattura.
La mossa del premier è abile e ben consigliata. L’accordo raggiunto – negli incontri con Roberto Speranza, capogruppo alla camera bersaniano tendenza compatibile, Cesare Damiano, presidente della commissione lavoro ed ex sindacalista quindi trattativista per definizione, e Matteo Orfini, presidente Pd, sinistra renzista e regista delle aperture gauchiste del leader – sbaraglia i gridi di battaglia delle minoranze e prova a depotenziare gli scioperi della Fiom e della Cgil. Damiano garantisce che le modifiche sono «vere, di contenuto». La commissione di Montecitorio inizierà a votarle domenica pomeriggio. Il governo ottiene che il testo venga approvato in aula entro il 26. Per Damiano l’accordo «scongiura» l’ipotesi del voto di fiducia. Ma alcuni renziani di rango sono convinti che proprio per «proteggere l’accordo» il voto di fiducia sul nuovo testo sarà necessario: per evitare che alla camera si scateni una bagarre – 5 stelle e Sel già la annunciano – che rallenti il passo della delega e faccia saltare tutto. Buona parte dei deputati della sinistra dem ora sarebbero favorevoli.

Intanto però debbono già rimangiarsi la richiesta di non anticipare il jobs act. Ieri alla capigruppo su questo lo scontro è stato durissimo, maggioranza da una parte e opposizioni dall’altra. «Un sopruso», secondo il forzista Renato Brunetta e il vendoliano Arturo Scotto. Per i 5 stelle «la minoranza Pd si è piegata per l’ennesima volta ai diktat di Renzi in cambio di qualche scarabocchio su una delega che resta in bianco e dunque incostituzionale. Tutto si decide ancora una volta nei consessi del maggior partito italiano e negli amabili faccia a faccia a Palazzo Chigi tra il presidente del Consiglio e il pregiudicato». Il calendario sarà votato lunedì in aula. Dove il Pd ha la maggioranza da solo, ma dovrà tenere conto anche dei malumori dell’Ndc che ieri ha gridato al tradimento per il reinserimento nella delega di un cenno al fantasma dell’art.18.

E così mentre Speranza convoca una riunione sugli emendamenti che «riprendono l’ordine del giorno approvato nella direzione Pd», Nunzia De Girolamo e Maurizio Sacconi corrono a Palazzo Chigi da Luca Lotti e Filippo Taddei per formalizzare i loro penultimatum. «Si tratta, la partita è aperta», dicono all’uscita. Ma avvertono: «Non possono pensare che in parlamento risolviamo i problemi della maggioranza e della minoranza del Pd. Non possiamo partecipare oltre che al patto del Nazareno anche a quello del gambero».
Intanto al senato il Pd si prepara riapprovare il nuovo testo in tempo record. Lo spiega il ’turco’ Francesco Verducci: «L’unità del Pd alla camera sulla delega lavoro è un importantissimo risultato». Ma dell’unità di cui parla Verducci non c’è traccia. Stefano Fassina sul suo voto finale resta scettico: «Vedremo quali modifiche verranno introdotte». Se i bersaniani dialoganti domani a Milano benediranno il nuovo testo, Alfredo D’Attorre non è ottimista come i colleghi. Così Gianni Cuperlo: «Aspettiamo di vedere il testo. Allo stato si usa la formula di contratto unico a tutele crescenti senza alcun riferimento all’art. 18. Se ci fosse un riferimento valutiamo, così continua a profilarsi il rischio di un eccesso di delega su un punto fondamentale». È la stessa cosa che l’Ndc vuole scongiurare.

E così Renzi ha trovato il modo per spaccare la minoranza Pd: alla fine solo un gruppetto potrebbe votare contro la delega. Ma il problema tornerebbe ad essere il senato. Lì la maggioranza ha numeri risicatissimi. Ventisette senatori della minoranza al primo giro hanno votato sì turandosi il naso: saranno tutti convinti dal nuovo testo? E cosa succederà se qualche malumore Pd si combinerà con i maldipancia di segno opposto targati Ncd?