Peter Kuper è un vignettista e illustratore americano. È il co-editore e co-fondatore della rivista a fumetti a tema politico World War 3 ed è conosciuto per aver rilevato il fumetto Spy vs. Spy per Mad magazine. I suoi lavori sono apparsi sul New York Times, Newsweek, Rolling Stones, ha prodotto graphic novel che sono state tradotte in più lingue, fra cui l’italiano. Nel 2016 con Ruins ha vinto l’Eisner Award per la miglior graphic novel, che ha avuto un successo planetario. Insegna alla Harvard University alla Parsons School of Visual Arts di New York e in questi giorni è a Roma per presentare la sua versione de La metamorfosi di Franz Kafka alla Nuvola (domenica, ore 16,15)
«ll mio primo incontro con lo scrittore è stato proprio con La Metamorfosi. Mi ha colpito l’aspetto visivo di quella storia, ho pensato che si sarebbe potuta tradurre perfettamente con le acrobazie visive che permettono i fumetti. Nel 1988 ho fatto il mio primo tentativo di adattamento di Kafka, un racconto breve intitolato Il fratricidio. Negli anni, mi sono avvicinato periodicamente agli altri suoi scritti: non solo erano consoni al mio approccio al fumetto, influenzato dall’espressionismo tedesco, ma letteralmente sentivo come se Kafka mi sussurrasse qualcosa all’orecchio e mi incoraggiasse a narrare storie più estreme, mentre le sue parole fungevano da àncora. Quando, all’inizio degli anni 2000, ho avuto l’opportunità di trovare un editore mainstream, ho proposto La metamorfosi. Era la scelta ideale sia per il mio stile, sia per la mia prospettiva sociale e politica, ma rappresentava anche una opportunità per raggiungere un pubblico più vasto che magari conosceva Kafka, ma non aveva consuetudine con i fumetti. Ammetto di aver intrapreso una sorta di crociata per avvicinare i lettori adulti a questa forma d’arte. Il mio adattamento (con la casa editrice Tunué), è stato tradotto in 11 lingue, e negli Usa è nei libri di testo. In Italia, l’anno scorso ha vinto il premio Lucca».

Nei suoi lavori lei parla molto di temi sociali: qual è la difficoltà più grande incontrata nello spiegare la politica americana a un pubblico straniero?
L’ostacolo più grande è la lingua: frasi idiomatiche e una certa ironia che può perdersi nella traduzione. Grazie a un altro mio interesse che è la narrazione senza parole, ho scoperto che eliminando il testo, posso usare simboli più universali, comprensibili al di là delle barriere linguistiche.
Per Charlie Hebdo ho realizzato una striscia a fumetti settimanale che è essenzialmente priva di parole, anche se il contesto è dato da un titolo di un articolo di cronaca. Nel complesso, si tratta di 4 tavole illustrate che trasmettono un tema politico incentrato principalmente su questioni ambientali (non solo locali). Attraverso i fumetti si possono superare le difficoltà di traduzione. In questa epoca, i problemi politici statunitensi sono familiari al pubblico di tutto il mondo che vive la propria versione di corruzione, autoritarismo e fascismo, presente anche nei propri governi e nel capitalismo predatorio.

Cosa significa fare giornalismo con fumetti e satira, unire la poesia trasmessa dal lavoro artistico alla brutalità delle notizie?
Picasso ha detto che «l’arte è una bugia che ci fa capire la verità». In questi tempi di post verità, l’arte può certamente esprimere ciò che sta accadendo a livello planetario con uno sguardo unico, utilizzando l’umorismo e l’ironia o, semplicemente, testimoniando. Non pretendo di essere obiettivo nelle mie vignette, rappresentano la mia prospettiva, la mia verità. Per molti versi, uso il mio lavoro come una zattera di salvataggio, per me stesso e spero anche per gli altri. Disegnare è il mio strumento per attribuire un significato a ciò che mi circonda e, tra le altre cose, per affrontare il mio terrore per i disastri ambientali ed esistenziali. Quando si tratta di orrori indicibili, come quello che sta accadendo in Medioriente, spero che disegnare sia un modo per creare una possibilità di dialogo di fronte a tanto odio e distruzione.