«Quando abbiamo letto la sua rivista, ne siamo stati nauseati. (…) Provo onta e disgusto a essere la madre di un simile mascalzone». Questo sintomatico passaggio è tratto da una lettera della madre di Arthur Cravan, al secolo Fabian Avenarius Lloyd, un «colosso mistico» alto quasi due metri e pesante oltre cento chili, svizzero ma di origine anglosassone, che in una poesia si definisce «Un perfetto miscuglio (…) / di elefante e di angelo». «Il mio talento è sproporzionato rispetto al mio corpo così vigoroso, ma crescerà» confessa, poco più che adolescente, all’adorato patrigno. La reazione indignata della madre era scaturita dalla lettura della rivista «Maintenant» di cui Cravan era l’unico redattore e le cui copie venivano vendute, al prezzo di venticinque centesimi l’una, accatastandosi in un carretto da fruttivendolo che lo stesso scrittore trasportava lungo le strade di Parigi. In un’altra lettera indirizzata a Otho Lloyd, fratello maggiore di Cravan e pittore che abbracciò senza successo il credo cubista, la madre così si esprime: «Conto su di te e sul tuo sangue freddo per aiutare questo povero squilibrato».
Cravan, mera incarnazione dell’élan vital di bergsoniana memoria, è uno di quegli autori che, alla stregua di altri «irregolari» che hanno costellato il firmamento letterario e artistico del primo Novecento, sono diventati punti di riferimento irrinunciabili per le avanguardie impostesi nelle prime due decadi del secolo: dal dadaismo al surrealismo. L’esistenza di questi antesignani del modernismo si può considerare come una vera e propria opera d’arte, sulla falsariga del celebre assioma di Wilde che è la vita a imitare l’arte e non viceversa, arrivando spesso a mettere in secondo piano la virulenza medesima dei testi creativi: si pensi alla «prosopoesia», di cui Cravan fu convinto assertore, la cui tecnica sembra anticipare gli stilemi del moderno prosimetro. Il capostipite di tali provocatori non poteva che essere Alfred Jarry, che riuscirà nell’intento di far incarnare al suo controverso personaggio Ubu, al fine di dileggiarli senza ritegno, gli aborriti stereotipi della piccola borghesia francese, anche se non bisogna dimenticare i rigorosi vaneggiamenti di Raymond Roussel, costruttore di macchinari inverosimili a cui si ispirerà Duchamp per l’allestimento delle sue machines célibataires. Seguiranno a ruota Jacques Vaché e Jacques Rigaut che, parafrasando un celebre titolo artaudiano, verranno definiti, con l’ausilio dello stesso Cravan, Trois suicidés de la société, come si intitolava un’antologia dei loro scritti predisposta nel 1974.

Esaltazione e mitomania
Non è un caso che l’opera iconoclasta di Cravan, permeata com’è di tracce evidenti di esaltazione e mitomania, tesa a concretizzare «la meravigliosa vita del fallito», abbia influenzato in maniera decisiva intellettuali del calibro di Picabia, Duchamp e Breton. Quest’ultimo asserirà emblematicamente, nella sua Anthologie de l’humour noir, che «i suoi sistemi preferiti sono la confessione cinica e l’insulto». Félix Fénéon, affermato critico e autore dei Romanzi in tre righe, gli manifesterà a più riprese il proprio incondizionato apprezzamento e Gide stesso si ispirerà alla sua figura nel delineare il personaggio di Lafcadio Wluiki, protagonista dei Sotterranei del Vaticano, paladino dell’atto gratuito che sfida le rigide convenzioni dell’epoca, compiendo un assassinio barbaro quanto inutile nei confronti di un bonario passeggero, catapultato da un treno in corsa al fine di appagare una suggestione estemporanea.
Dopo la pubblicazione dell’antologia Grande trampoliere smarrito, curata per Adelphi nel 2018 da un partecipe Edgardo Franzosini, si è manifestato un ritorno di interesse nei confronti di questo poeta pugile, che in vita non pubblicò un solo libro e che scomparve misteriosamente dal porto messicano di Salina Cruz nell’autunno del 1918, prima di imbarcarsi per l’Argentina. Esce ora, tradotta da Manuela Maddamma e con prefazione dello stesso Franzosini, la biografia, originariamente allestita da Maria Lluïsa Borràs nel 1996, Arthur Cravan Una strategia dello scandalo (Johan & Levi «Biografie», pp. 224, € 23,00). Si tratta di un lavoro documentato e rigoroso che, nonostante qualche inevitabile lacuna dovuta all’estrema rarità delle fonti (non viene abbastanza approfondito, ad esempio, il rapporto con Gide, di cui Cravan fu per un certo periodo segretario, e non si fa menzione, come sottolinea Franzosini, di Sophie Treadwell, una delle tre donne amate, portate ad alimentare la sua «funesta pluralità»), si impone come uno strumento indispensabile per comprendere meglio la figura del «poeta dai capelli più corti del mondo», come l’autore stesso si definiva. La Borràs ci accompagna per mano lungo il breve ma ricchissimo arco dell’esistenza di Cravan: dalle complicate vicissitudini familiari nella natia Losanna alla scoperta del grado di parentela con Oscar Wilde, sposato con Constance Lloyd, sorella del padre dell’autore; dal trasferimento a Parigi dove incontra Alphonsine Bouchée detta Renée, e fonda la rivista «Maintenant» di cui usciranno solo cinque numeri, all’apprendistato pugilistico che lo vede diventare campione di Francia dei mediomassimi; dal fatidico incontro a Barcellona con il «mitico» Jack Johnson, in cui perderà per ko al sesto round, al trasferimento a New York nel disperato tentativo di sottrarsi alla carneficina della Grande Guerra; dal matrimonio con l’affascinante poetessa Mina Loy all’esilio messicano dove incontra Jim Smith, denominato «el diamante negro», che lo mette al tappeto al secondo round. Infine la scomparsa, ammantata delle più incredibili e rocambolesche congetture, che presenta singolari analogie con quella del narratore americano Ambrose Bierce, avvenuta sempre in territorio messicano una manciata di anni prima.

Contro Chagall e i Delaunay
Una vita, quella di Cravan, spesa all’insegna della provocazione, sulle orme del suo modello Oscar Wilde di cui dichiara ai quattro venti di essere il nipote e del quale ricostruisce, nella prosa Oscar Wilde è vivo!, la fantomatica visita effettuata il 23 marzo 1913 nel suo appartamento parigino. Peccato che lo scrittore irlandese fosse morto ben dodici anni prima a causa di una meningite! Cravan sosteneva tuttavia che l’individuo deceduto presso l’Hôtel d’Alsace di Parigi non fosse Wilde, in realtà mai conosciuto. L’autore svizzero fu inoltre immortalato in tele, qui riprodotte, di van Dongen e Severini, nonostante avesse manifestato avversione nei confronti dei pittori che esposero al Salon des Indépendants: dai coniugi Delaunay a Chagall, definito Sciacal, da Malevich a Marie Laurencin. Le conferenze stesse altro non saranno che il pretesto per esibirsi in una serie di trovate a dir poco sconcertanti, come riportato in questo resoconto tratto dal Paris-Midi del 6 luglio 1914: «Questo Arthur Cravan è un omone biondo e sbarbato, vestito con una camicia di flanella sbottonata, con una cintura rossa, un pantalone nero e scarpe con tacco; ha parlato, danzato, boxato. Prima di parlare ha tirato qualche colpo di pistola, poi ha sparato, tra il serio e il faceto, le più grandi insensatezze contro l’arte e la vita. Elogia gli sportivi, superori agli artisti, elogia gli omosessuali, i ladri del Louvre, i folli ecc.». Si denuderà a più riprese in pubblico, sfoggiando uno striminzito cache-sexe, e anticiperà con i suoi atteggiamenti sistematicamente irriverenti gli spettacoli allestiti a Zurigo dal Cabaret Voltaire. Cendrars dichiarò che «raccontare la vita di Arthur Cravan equivale a far la storia della fondazione del dadaismo» e considerava al contempo il poeta capace «di illuminazioni folgoranti, non meno profetiche e ribelli e disperate e amare di quelle di Rimbaud». D’altro canto lo pseudonimo scelto coniuga il patronimico dell’autore della Saison en enfer, nonché del racconto wildiano Lord Arthur Savile’s Crime, con Cravans, cittadina sita nella regione della Nuova Aquitania che diede i natali alla compagna Renée e nella quale lo scrittore si profuse per un buon quarto d’ora, con la disinvoltura di un beota, a suonare ininterrottamente le campane. Quest’operazione, secondo la biografa, fu una sorta di nascita ufficiale dell’autore, la cui natura dirompente e contraddittoria sembra manifestarsi in un verso della poesia intitolata Arthur: «Pazzo a essere pugile pur sorridendo all’erba».