“Comprò del velo nero, io avevo un pezzo di felpa lui lo prese, ci ritagliò tanti dischetti e poi con la gomma li incollò sul tulle, mi fece poi fare due maniche e tutto lì. L’effetto fu sorprendente e quell’ombra della tesa del cappello sul viso era meravigliosa. Il dipinto, dopo una diecina o quindici sedute, pareva quasi finito, allora cominciarono nello spirito di lui delle incertezze. Mette il dipinto a terra, prende una bottiglia di acqua ragia e con un cencio comincia a lavarlo tutto. Le lacrime mi scorrevano per le gote silenziose. Il dipinto veniva fuori sempre più chiaro e limpido. Allora impazientito accorgendosi dell’errore, prese la tela e la rimise contro il muro. Dopo due o tre giorni, mi fece rimettere in posa, e il ritratto ebbe fine”.

Così si legge nel dattiloscritto di memorie autobiografiche, risalente agli anni 1946-1947, redatto da Isabella Morandini.

Nell’agosto del 1902 Isabella sposa Oscar Ghiglia, ed è in quell’anno che il giovane pittore livornese (Ghiglia ha ventisei anni) realizza il suo ritratto.

La figura femminile è seduta su una poltrona, la tappezzeria d’un rosso scuro, intenso, che va spegnendosi. Emerge di poco da un fondo campito da due losanghe di terra verde e da un riquadro di color mattone smorzato.

Una penombra è scesa nella stanza e il tono di semioscurità è accresciuto dal soffice nero che si estende nel primo piano, il lungo abito nero che la donna veste. L’orlo dell’ampia scollatura descrive un arco rovesciato. Una leggera stoffa trasparente stende sulle braccia velate una patina affumicata: vi posano, qua e là, pois scuri. Lei ha in testa un cappello dalle larghe falde. Solo in due punti il feltro chiaro biancheggia. È nascosto quasi per intero da una sorta di sciarpa scura che arricchisce il copricapo delle sue volute e, insieme, lo appesantisce modellandolo in una foggia strana e sontuosa, mossa, come vi aleggiasse un refolo che sostiene quei larghi nastri aggrovigliati. Vi potrebbero restar nascosti i serpi della Medusa.

La tesa tiene gli occhi nell’ombra: occhi scuri che guardano diritto in volto, senza un battito di ciglio, chi li guardi. Tutta la luce del quadro si concentra e si espande sul naso, sulla bocca, sul collo e sul décolleté di costei. E sulle mani. L’una seminascosta, poggiata sul grembo tra le pieghe nere, e l’altra al bracciolo della poltrona inerte, quasi.

È una luce che cala e par si muova nel respiro regolare di lei. Nella vita di lei che pulsa, che avverti vigorosa di energia, ora solo per un momento rattenuta, pronta a scattare con una intensità possente, forse con veemenza in quella stanza, in quell’interno poco vissuto o già vissuto da altri in un tempo ormai estinto.

Nel 1908 Giovanni Papini scriveva su “Vita d’Arte”: “Quest’opera è il capolavoro del primo stile di Oscar Ghiglia. Non si può considerare come il ritratto di una precisa persona ma piuttosto come la rappresentazione di un complicato e misterioso stato d’animo, ottenuto per mezzo di sembianze femminili. Il pittore cominciò col ritrarre una donna – poi questa partì – ed egli finì il quadro ritraendo sua moglie con gli stessi abiti dell’altra. N’è venuta fuori una figura strana in cui appaiono, secondo i momenti, due anime differenti – ora sembra soprapensiero e terribilmente triste e rassegnata: un’altra volta cattiva, maligna, preparatrice di sventure e d’insidie. I suoi occhi, grandissimi nell’ombra del cappello, guardano lo spettatore con ostinazione e il bel petto bianco e le ali azzurre sopra la testa non bastano a far fuggire quel senso di gravità e di mistero che produce l’enigmatica femmina, seduta nell’ombra come una regina meravigliata di aspettare”.

Attesa, Erwartung: un topos novecentesco. Quest’opera, tra le poche di altrettanto elevato tenore degne d’aprire la pittura del Novecento europeo, è esposta a Viareggio presso la “Fondazione Matteucci per L’Arte Moderna” nella mostra Ghiglia classico e moderno che accoglie un cospicuo gruppo di dipinti dall’Autoritratto del 1901 all’Autoritratto del 1927.

Nell’arco di quel trentennio Ghiglia ha dipinto alcune delle pitture capitali del secolo sulle quali varrà la pena di tornare.